L’eroismo di un uomo buono, di un padre, di un marito, di un cittadino, di un fedele servitore dello Stato, a cui piaceva il proprio lavoro, interpretato con equilibrio e generosità. Questo era il commissario capo di pubblica sicurezza Luigi Calabresi, ucciso proditoriamente la mattina del 17 maggio 1972 a Milano. Un anniversario lontano nel tempo, mezzo secolo fa, la cui memoria, tuttavia, non si affievolisce, anche solo a osservare quante persone semplici e autorità prendono parte alla celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo nella chiesa di San Marco, dove – era il 23 maggio – si svolsero le esequie solenni presiedute dal cardinale Giovanni Colombo.
Presenti in prima fila i parenti – la vedova Gemma Capra, i tre figli (di cui l’ultimo nato dopo la morte del padre), i nipoti – e i rappresentanti delle istituzioni, tra cui il questore Giuseppe Petronzi, il prefetto Renato Saccone, la vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo e la parigrado della Città metropolitana Michela Palestra, tanti agenti e dirigenti della Polizia e delle altre armi. La Messa è concelebrata dal cappellano del Reparto mobile di Milano e della Questura di Lodi don Fabio Volpato e da don Gianluca Bernardini, cappellano della Polizia di Stato di Milano. È lui che, nel saluto di apertura, sottolinea la figura «a tutti noi tanto cara del commissario capo Calabresi».
L’omelia dell’Arcivescovo
«Che cosa c’è nel cuore umano perché un uomo giunga ad alzare la mano contro un altro uomo? Come succede che un uomo diventi assassino? C’è un seme di violenza piantato nel cuore umano. Non possiamo tacere il nostro spavento. Il commissario Luigi Calabresi, a servizio dello Stato, apprezzato per le sue qualità, marito amato e padre, 50 anni fa ha subito la violenza ingiusta, insensata, spaventosa», scandisce l’Arcivescovo, aprendo la sua omelia (leggi qui il testo integrale). «Nella desolazione e nello spavento che minaccia di paralizzarci, di convincerci dell’impotenza dei buoni e della sconfitta del bene, Gesù rivela il desiderio del Padre. C’è dunque una promessa, ci sono buone ragioni per coltivare la speranza che il seme di violenza possa essere estirpato e il cuore umano possa guarire».
L’appello è ad amare di quell’amore che sa perdonare: «Amare invece che contrastare il male con il male, la violenza con la violenza. Amare invece che consentire al seme di violenza di attecchire, crescere, esplodere in una seminagione di violenza che inquina la terra. Amare invece che essere passivi, ingenui, fragili, ottusi, vittime delle passioni del momento che inducono a credere alle menzogne, a chiamare male il bene e bene il male, nemico il fratello, ostile colui che è giusto, oppressore colui che serve. Amare invece che essere indifferenti, accomodati nei luoghi comuni, chiusi nell’individualismo che ha come legge suprema di non essere disturbati».
Una scelta non facile, ma necessaria perché – dice ancora – «la forza che permette all’umanità di continuare a esistere si può chiamare la legge del “nonostante”»: «Nonostante la violenza che tende a spegnere la vita e l’assurdo scatenarsi delle passioni, la ragionevolezza continua a mettere ordine sulla terra. Nonostante il volto indurito dalla determinazione a fare del male, il sorriso mite del bene continua a suggerire la vocazione a sorridere. Nonostante la mente sconvolta dall’ideologia, il pensiero docile alla verità continua a riconciliare il pensiero con la realtà. Nonostante le parole della menzogna gettino fango sulle persone oneste, la rettitudine continua tenacemente, pazientemente a ripulire le parole, a purificare il convivere, a seminare parole semplici e vere». Evidente il riferimento alla campagna di odio scatenata per anni contro il Commissario e al lungo cammino intrapreso dalla vedova per perdonare gli assassini del marito.
«Nessuno è perfetto, ma tra la gente ci sono molti che per cercare la giustizia, migliorare le leggi, sopportare l’imperfezione dedicano tempo, competenza, sacrificio. Ci sono persone così, perciò l’umanità continua ad esistere. Ci sono uomini e donne come il commissario Calabresi che contribuiscono a sradicare il seme della violenza che, nel cuore dell’uomo, continua a depositarsi, a germogliare e a produrre i disastri che ci spaventano; persone che praticano quella forma di amore tragico e promettente che si può chiamare il principio del “nonostante” e il “servizio al bene comune” che intende l’appartenenza alla vita sociale come responsabilità a condividere e a servire».
Poi la recita corale della preghiera di San Michele Arcangelo (patrono della polizia di Stato) e, usciti di chiesa, il breve tragitto a piedi fino alla Questura, in una sorta di cammino inverso rispetto a quello dei funerali solenni del 1972, quando appunto dalla Questura il grande corteo con la bara al centro arrivò in San Marco.
La commemorazione civile
A concludere il ricordo – iniziato di prima mattina in via Cherubini, con la deposizione di un mazzo di fiori nel luogo dove avvenne l’omicidio – è la commemorazione civile nel cortile d’onore della Questura, per cui arrivano anche il capo della Polizia Lamberto Giannini, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, personalità della società civile, della cultura, del giornalismo. Tra gli stendardi del Comune, della Regione, della Città metropolitana, dell’Associazione Partigiani, degli ex Deportati, della Polizia di Stato, brillano al sole le tante medaglie d’oro che raccontano una storia di civiltà, di rispetto dei valori che ispirano la Repubblica e di passione per il bene comune. Non a caso, nella stessa ora, a Roma anche il capo dello Stato Sergio Mattarella ricorda il sacrificio di Calabresi.
A prendere la parola è il questore Petronzi, per 24 anni in servizio presso la Digos «in quell’ufficio – spiega – che veniva schernito come Ufficio politico, ma dove in verità si preservavano i valori dello Stato. Calabresi era soprattutto un uomo che applicava la regola che fa parte di nostri valori fondanti: l’equilibrio che bisogna sempre ricercare. Non dimentichiamo che sempre qui (era il 17 maggio 1973, si commemorava il primo anno dall’uccisione del Commissario) avvenne una strage in cui persero la vita quattro persone. Il compito di tutti noi è garantire la sicurezza del nostro Paese».
Le parole della vedova e del Capo della Polizia
«Io amo questo posto, la Questura, dove Gigi, mio marito, ogni mattina veniva a lavorare, era la sua seconda casa. Cinquant’anni è un tempo lunghissimo, ma lo abbiamo sempre portato con noi. La memoria è un cammino, ha le gambe. Finalmente l’immagine di Luigi Calabresi, infangato negli anni Settanta, corrisponde a quello che era veramente: un uomo giusto che amava il suo lavoro», dice la vedova signora Gemma.
«Quella di Calabresi è una figura mai incrinata nella Polizia di Stato e nelle forze dell’ordine, un mito, un esempio per ciò che doveva e deve essere il nostro lavoro, per il senso dell’onore e del dovere che gli ha fatto sopportare stoicamente una vera persecuzione. Non dimentichiamo che dal suo omicidio è partita una scia di sangue. Tutto questo ora non è più, ma questa celebrazione, oltre a essere un doveroso ricordo, deve essere anche un monito per il presente, facendo memoria di figure che si sono sacrificate», sottolinea Giannini richiamando i suoi 28 anni di servizio nell’antiterrorismo.
Infine, la deposizione delle corone di fiori ai piedi del busto del Commissario, posto da molti anni nel cortile d’onore e davanti alla lapide, dove scoppiò l’ordigno, che ricorda i morti della strage del 1973.