La guerra è arrivata anche qui a Chişinău. Non ha il marchio dei carro armati né la polvere delle macerie né l’aria pesante del fumo delle bombe. Ma il volto segnato e gli occhi tristi dei profughi in fuga dai bombardamenti. Le persone che arrivano qui, giungono soprattutto dal sud dell’Ucraina. Mariupol, Mykolaiv, Kherson. E’ un rosario geografico di dolore e morte. Siamo nel Centro don Bosco di Chişinău. Odessa dista da qui solo 180 chilometri. «Accogliere queste persone significa accogliere il dramma che stanno vivendo, mettersi in ascolto del dolore e del grido che hanno dentro. Significa fare silenzio quando fanno fatica a parlare e ascoltarli quando invece hanno bisogno di qualcuno con cui sfogare i loro problemi. Una signora ieri mi diceva di aver saputo che la sua casa a Mykolaiv è stata bombardata». A raccontarci della “guerra” che si sta combattendo in Ucraina, è don Sergio Bergamin, salesiano di Padova, responsabile dell’oratorio del Centro don Bosco di Chişinău.
Da palestra a luogo di accoglienza
Una struttura nata nel 2007 per ospitare giovani e adolescenti del posto, dotata di palestra e oratorio, una casa famiglia per bimbi abbandonati e di un centro di formazione professionale. Ma in queste settimane il centro si è trasformato in luogo di accoglienza. «Una sera ci chiamano dalla diocesi per chiederci se avevamo a disposizione 80 posti letto per i rifugiati. Era la fine di febbraio e la guerra era appena scoppiata – racconta don Bergamin -. Abbiamo preso tutti i materassi e i sacchi a pelo che avevamo ed abbiamo riempito la palestra del centro». I primi ad arrivare sono stati gli italiani che fuggivano dalla ambasciata di Kiev. Poi sono cominciati ad arrivare altri gruppi di immigrati che vivevano in ucraina per lavoro e poi via via anche gli ucraini costretti a lasciare le proprie case. «Abbiamo usato tutta la struttura, riempendo le camere di letti e materassi».
Record di accoglienza
In questi due mesi di guerra, sono passati dalla Moldova circa 400 mila rifugiati ucraini. E’ il Paese con il tasso di accoglienza più alto in rapporto al numero di cittadini (fonte Unhcr). Tre quarti dei rifugiati ucraini, oltre un terzo dei quali bambini, giunti finora in Moldova, sono stati ospitati in case private, il resto in centri di accoglienza e nelle strutture ricettive messe a disposizione dagli operatori turistici. Anche qui la Chiesa cattolica è in prima linea nell’accoglienza, mettendo con generosità a disposizione centri e strutture. La Moldova, due milioni e mezzo di abitanti e uno dei Pil più bassi d’Europa, ha dimostrato di essere «un piccolo paese con un grande cuore». Prima c’è stato il flusso delle persone che fuggivano dalla guerra e passavano da qui per raggiungere altri paesi di destinazione. Ora sono rimaste le persone che decidono di restare perché vogliono ritornare a casa, appena la situazione della guerra lo consente. Si tratta di un terzo dei rifugiati che ha aumentato la popolazione locale del 4%. «Arrivano qui da noi – racconta il sacerdote salesiano – come qualcuno che fugge da un terrore. Spaventati. Depressi. Alcuni anche traumatizzati. Insomma, è gente che dall’oggi al domani si è trovato a perdere tutto. La casa, la macchina, il lavoro, il futuro».
Festa a Pasqua
La palestra del centro Don Bosco è colorata, tappezzata di bandiere ucraine e poster. Fuori si gioca a calcio. Dentro a ping pong. C’è aria di festa. D’altronde domenica anche qui a Chişinău dove la popolazione è a maggioranza ortodossa, era Pasqua. E sui tavoli ci sono dolci tipici e uova colorate. A prestare servizio, sono arrivati in questi giorni dall’Italia, 15 volontari del Vides, ong salesiana che si occupa di volontariato e cooperazione internazionale. Hanno anche caricato 4 pulmini di aiuti umanitari, cibo e medicinali.
«Ci siamo confrontati con una realtà totalmente diversa da quella che siamo abituati a vivere in Italia con la migrazione – racconta suor Francesca Barbanera, suora salesiana figlia di Maria Ausiliatrice e direttore generale della ong Vides -. Le persone che abbiamo incontrato qui, sono tutti professori e insegnanti. Gente assolutamente come noi. Sono arrivati con le loro valige, con tutto quello che potevano portare via dalle loro case, anche con gli animali domestici. Abbiamo visto tanta paura e tristezza negli occhi. L’altra sera una signora si è sentita male. Aveva la pressione altissima. L’abbiamo tranquillizzata. Sono situazioni che ti fanno pensare». Il centro è pieno di ragazzi, soprattutto adolescenti. Con loro non è facile. «Non parlano. Fanno fatica ad aprirsi – spiega la suora -. C’è un ragazzo che i primi 3 giorni ha solo pianto ed è rimasto chiuso, solo, da una parte. La sera che siamo arrivati si è avvicinato a me con una racchetta da ping pong e abbiamo cominciato a giocare. A volte anche il gioco può aiutare a sciogliere i nodi più profondi».
«La guerra è complicata – confida Marco Battaglia, di Vides Main che nella vita fa l’educatore -. Sicuramente è un flagello per tutti. Per chi la impone e per chi la subisce. Lascia ferite profonde che si porteranno avanti per anni, segnando non una ma più generazioni con danni incalcolabili che richiederanno tempo e lunghi processi di ricostruzione e riconciliazione. E sono danni non soltanto materiali, ma anche e soprattutto umani, con un patrimonio di energie, voglia di vivere e serenità che si sta disperdendo. E tutto questo è una eredità pesante come pensante è pensare che in questo momento a 40 chilometri da noi stanno bombardando delle città dove ci sono persone che stanno morendo e altre che non sanno cosa sarà del loro domani. Questa è la guerra».