«L’economia deve ritrovare quanto prima la strada della cooperazione internazionale e di uno sviluppo sostenibile e condiviso». Ne è convinto Sebastiano Nerozzi, professore associato di Storia del Pensiero economico all’Università Cattolica del Sacro Cuore e da un paio di mesi segretario del rinnovato Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani. Con il docente cerchiamo di capire quale potrebbe essere l’impatto dell’invasione russa sull’economia italiana, provando a individuare anche un insegnamento dalla drammatica situazione che, di riflesso, interessa anche noi.
Professore, la guerra in Ucraina ha spento l’entusiasmo del 2021 sulle speranze e le prospettive di ripartenza e ripresa?
La crisi ucraina ha sorpreso molti osservatori e i mercati finanziari, che non si aspettavano un conflitto di questa portata. L’impressione è stata forte, condizionando la fiducia di consumatori e investitori. C’è molta volatilità sui mercati e l’inflazione, cresciuta già nel 2021, è giunta a febbraio al 5,7% su base annua. Pochi giorni fa l’Istat ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita dell’economia italiana, riducendole dello 0,7%, ma ha anche chiarito che ulteriori ribassi sono possibili.
Quali sono o possono essere le conseguenze nel breve periodo del conflitto russo-ucraino per l’economia del nostro Paese? E nel medio-lungo periodo?
Purtroppo l’Italia, nonostante gli sforzi e le iniziative dell’ultimo biennio, è stata spiazzata dalla crisi. Siamo, infatti, appena agli inizi del percorso di transizione energetica e la nostra dipendenza dal petrolio e dal gas russo è fra le più elevate in Europa. Neppure abbiamo ancora messo a punto una rete di sicurezza sociale adeguata a proteggere le fasce più deboli della popolazione. L’impatto della crisi sarà tanto più duro quanto più a lungo durerà la guerra.
Chi paga o rischia di pagare di più questa situazione?
In primo luogo le famiglie più povere: l’Istat ci dice che i rincari di energia e beni alimentari stanno aumentando la povertà assoluta che tocca oggi il 7,5% delle famiglie, ovvero 5,6 milioni di persone. In secondo luogo le imprese, soprattutto quelle “energivore” e quelle ancora gravate dai debiti accesi durante la pandemia. La bolletta energetica delle imprese italiane è passata da 9 a 37 miliardi annui e aumenterà ancora se i prezzi non scenderanno. Anche i prezzi delle materie prime incidono negativamente sul costo degli input, aumentato di quasi il 15%. A gennaio la produzione industriale ha perso il 3,4% rispetto a dicembre, mentre l’occupazione ha smesso di crescere e potrebbe ridursi nei prossimi mesi.
Nei giorni scorsi si è più volte evocata «l’economia di guerra». Si tratta di uno scenario possibile o di necessità ormai prossima?
Non credo che il nostro Paese si trovi o possa trovarsi a breve in una «economia di guerra». Durante la pandemia abbiamo imparato che abbiamo bisogno di una «economia di cura»: cura delle persone più fragili, cura delle relazioni, cura del bene comune, cura dell’ambiente. Non dimentichiamo adesso questa lezione.
Nel 2021 il dibattito pubblico e molta attività legislativa e di governo sono stati incentrati sul Piano nazionale di ripresa e resilienza: il Paese immaginato nel Pnrr rischia di essere superato una volta che, speriamo il prima possibile, la guerra finirà? O la realizzazione dei contenuti ha assunto un carattere di maggior urgenza?
I tragici eventi di questi giorni ci mostrano quanto sia stata saggia e lungimirante la strategia del Pnrr. Il cammino che l’Italia ha intrapreso è essenziale per realizzare la transizione ecologica ed energetica di cui abbiamo bisogno. Certamente ci sono ancora difficoltà tecniche e amministrative che devono essere superate per trasformare le opportunità aperte dal Pnrr in investimenti adeguati. Forse la guerra ha distolto un po’ l’attenzione da questa priorità, ma non per questo l’orologio della minaccia climatica e ambientale si è fermato. E anche il Pnrr sta andando avanti.
Alcuni temi come quelli della transizione ecologica e delle comunità energetiche affrontati anche nelle Settimane sociali di Taranto, rischiano di finire nel dimenticatoio in attesa di tempi migliori. Come ridare vigore e accelerarne l’attuazione, considerato che le questioni energetiche sono fortemente legate alle ricadute del conflitto?
La Settimana Sociale di Taranto ha stabilito un punto di non ritorno per la coscienza ecologica dei cattolici italiani e ha gettato linee concrete di azione per i prossimi anni. L’ecologia integrale proposta dalla Laudato si’ è una prospettiva che interpella e coinvolge tutti, indipendentemente dalla loro fede. Le comunità energetiche possono essere una risposta molto concreta alla crisi che stiamo vivendo. Ciò mi spinge a dire che il cammino iniziato a Taranto continuerà e i frutti arriveranno, anche grazie all’impegno di molti giovani che nelle diocesi e nei movimenti ecclesiali si stanno mettendo in rete per innescare un cambiamento di mentalità e portare avanti progetti di conversione ecologica a favore dei territori.
Come in una situazione così tragica com’è quella generata dal conflitto far crescere e consolidare una economia di pace alternativa all’attuale paradigma?
Il fatto che l’iper-globalizzazione sia in crisi da qualche anno ci deve fare riflettere sui limiti di quel paradigma economico. Esso ha portato, fra le altre cose, ad una crescita insostenibile, con un forte aumento delle diseguaglianze e dello sfruttamento dell’ambiente e dei lavoratori. Tuttavia, sarebbe un tragico errore chiuderci adesso nel recinto di blocchi economici auto-organizzati, secondo una strategia di imperialismi contrapposti: l’economia deve ritrovare quanto prima la strada della cooperazione internazionale e di uno sviluppo sostenibile e condiviso. Costruire un’economia di pace significa attuare nel nostro lavoro, nelle nostre imprese, nelle nostre comunità comportamenti che ripartiscono in modo equo i benefici della crescita, includendo le persone, attivando le energie e generando le innovazioni di cui abbiamo bisogno. L’economia di pace non è un sogno lontano, ma un bene da custodire e coltivare ogni giorno.