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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Treviglio

«Anche se c’è lo strazio, la gioia sperimenta la speranza fondata sulla promessa di Dio»

Nel Santuario della Madonna delle Lacrime l’Arcivescovo ha presieduto la Messa della Velazione e quella dei Miracolo, a 500 anni dall’evento prodigioso

di Annamaria Braccini

28 Febbraio 2022
L'Arcivescovo celebra nel Santuario  di Treviglio (foto Enrico Appiani)

Il tempo dell’attesa che è tempo di speranza fiduciosa; tempo di preghiera come quello dei discepoli e di Maria nel Cenacolo. Tempo che richiama quello vissuto dai cittadini di Treviglio per l’avvicinarsi dell’esercito francese comandato dal generale Odet de Foix, visconte di Lautrec. Come andarono gli eventi allora, è notissimo: il pianto dell’immagine della Madonna (per questo detta delle Lacrime) per ben 6 ore continuative, la decisione del militare di non assaltare Treviglio e la devozione che circonda l’icona mariana sita nel Santuario omonimo. Dove esattamente 500 anni dopo l’Arcivescovo – dopo aver predicato nella Novena per tutta la settimana – celebra la Messa della vigilia del Miracolo, la Messa delle Lacrime.

«Celebriamo questi santi misteri con capacità di ascoltare la parola di Dio che ha qualcosa da dire a ognuno di noi», dice, in apertura monsignor Delpini, cui sono accanto diversi sacerdoti tra cui il prevosto di Treviglio, monsignor Norberto Donghi. Il riferimento, nell’omelia, è al primo capitolo degli Atti.

La spiritualità della vigilia

«Attendere significa guardare avanti, vivere il presente come un tempo di passaggio che non si concentra su quello che si ha, su come si è vestiti, sul luogo dove si è. Ciò che è importante è quanto deve avvenire. Il trascorrere del tempo non è una successione scontata di ore e di giorni sotto controllo. Il presente passa e non è l’essenziale: c’è una speranza che abita la vita».

Chiediamoci quanto contano le nostre aspettative e le paure, come quella dei nostri padri in preghiera nell’angoscia per l’avvicinarsi dell’esercito francese, suggerisce l’Arcivescovo, che nota come nel Cenacolo i discepoli fossero 11 per l’assenza di Giuda. «Già in questo numero incompleto, ciascuno più ritrovare la fragilità. Cosa ci dice il fatto che alcuni mancano, come viviamo le nostre ferite? Sono recuperabili? Dove sono quelli che mancano?».

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Un altro tratto della vigilia è che gli apostoli erano «concordi», come dice la Scrittura. «L’attesa, la paura, l’incertezza è condivisa. C’è sempre la tentazione di sperare e di vivere solo per se stessi e c’è persino chi guadagna sulla paura degli altri, ma la concordia è una grande forza che sostiene, incoraggia, che ridimensiona le paure e consente di pensare, di organizzarsi, di predisporsi alle emergenze. All’“umil tempietto” – l’immagine di Maria dipinta sul muro del campanile della chiesa di Sant’Agostino delle antiche cronache – i nostri padri erano in preghiera. Oggi la preghiera è una pratica troppo trascurata, la presenza di Dio, di Maria e dei Santi rischia di essere percepita come una devozione di altri tempi. Invece noi pratichiamo la preghiera come un respiro: imparare a pregare è necessario per imparare ad attendere, per vivere la vigilia, non come l’incombere di una minaccia, ma come responsabilità per scegliere la via del Regno».

Infine, Maria «la donna di fede che insegna a vivere nella fede, aiuta a pregare, vive anche lei l’esperienza del non capire, vive gli anni di Nazaret come anni del silenzio».

«La spiritualità della vigilia corregge la frenesia dell’operare, ridimensiona l’assolutizzazione del presente, la pigrizia che si assesta inoperosa come in un parcheggio e che non va da nessuna parte. Sperimenta la fraternità che vive l’intensità della preghiera, degli affetti, della disponibilità al dono dello Spirito per la missione»

Poi il racconto dell’avvinarsi dell’esercito di Lautrec, in quel fatidico 27 febbraio 1522, il canto delle Litanie lauretane, con i celebranti e i fedeli rivolti alla Madonna delle Lacrime che nell’oscurità, prima dell’altare e poi dell’intero Santuario con la sola effigie della Vergine in piena luce, viene velata. Infine, la recita corale dell’Angelus conclude la celebrazione nella vigilia della Messa del Miracolo, presieduta sempre dall’Arcivescovo, anche nella sua veste di presidente della Cel, la mattina del 28 con la svelazione iniziale della venerata immagine, sui cui cadono petali di rosa, mentre viene intonato il Canto del Te Deum.

La Messa del Miracolo

Quattordici i vescovi concelebranti, provenienti dall’intera Lombardia, insieme a vescovi ausiliari ed emeriti, e molti i sacerdoti. Nelle prime file del Santuario, le autorità militari e civili, tra cui diversi primi cittadini, i rappresentanti del territorio, delle associazioni, del volontariato.

L’omelia

Tra il passato trevigliese di cinque secoli fa e un presente del mondo che, in queste ore, è sotto gli occhi di tutti, si articola la riflessione dell’Arcivescovo: «Nel momento del pericolo estremo la città intera è segnata dall’angoscia senza distinzione. Nel momento della rivelazione e della miracolosa salvezza, tutti gli abitanti di Treviglio condividono sollievo. È l’immagine di una compattezza, di un’unità sorprendenti e inconsuete per i nostri giorni. Nella città moderna, infatti, sembra impossibile che tutti condividano gli stessi sentimenti. Siamo abituati a riconoscere la complessità delle città e la pluralità delle presenze, a dare per scontato che alla festa partecipino alcuni e altri siano assenti. Anche l’esperienza straordinaria ed edificante della Novena, con una partecipazione così numerosa, considera tuttavia piuttosto naturale che molti siano assenti. Come viviamo l’assenza, l’indifferenza, il senso di estraneità di molti?».

Chiara e immediata la risposta. «La comunità cristiana esiste per tutti. Noi non siamo tutti, ma siamo per tutti e chiediamo la grazia di non venire meno a questa missione».

Una missione – questa – da vivere con gioia, sottolinea l’Arcivescovo. «L’attrattiva della gioia è il segno più necessario per questo nostro tempo tribolato e depresso; la gioia che nasce dalla presenza nella nostra comunità dello spirito del Risorto». È il «Kaire, ràllegrati» dell’annuncio dell’angelo che ha dato il titolo all’intera Novena 2022. «La gioia annunciata dall’angelo non è l’allegria facile di qualche momento di euforia, ma la gioia profonda e invincibile che viene dall’amore e che convive anche con le paure la sofferenza la povertà. È la gioia che sperimenta la speranza fondata sulla promessa di Dio, anche se c’è anche lo strazio».  Quello che si manifesta nel pianto e nella preghiera, ieri come oggi, ma che non è indifferenza o rassegnazione di fronte alle sfide come l’emergenza educativa, la fragilità della famiglia, la poca fede del popolo cristiano, il senso di impotenza che ci assedia continuamente».

«L’impotenza diventa uno strazio, ma noi possiamo pregare e piangere: non ci rassegniamo, non ci abituiamo alla corruzione dei giovani e alla disperazione di molti di loro, non crediamo di avere ricette risolutive per i problemi del nostro tempo, ma non rinunciamo a pregare e a cercare strade da percorrere e soluzioni da proporre». Proprio perché «ciascuno è accompagnato, chiamato per nome dall’alto della croce di Gesù che ha vinto la morte e offerto per tutti la salvezza».

A conclusione, dopo le parole del Prevosto monsignor Donghi, è l’Arcivescovo a portare a ognuno la sua benedizione e il saluto – idealmente anche per i tanti che seguono da remoto la celebrazione -, esprimendo la propria riconoscenza e ammirazione.

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