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Taivé, dove le donne “ricuciono” la loro vita

Il laboratorio di sartoria di Caritas ambrosiana offre formazione e lavoro a persone fragili, aiutandole a emanciparsi. Intervista a suor Biondi

di Luisa BOVE

30 Gennaio 2022
La prova di alcuni ornamenti prodotti a Taivé  (foto Tiberio Mavrici)

Un conto in banca e un cellulare. Sono questi gli strumenti di emancipazione per molte donne rom – e non solo – che lavorano alla sartoria Taivè di Caritas ambrosiana, oggi gestita dalla cooperativa sociale Vesti solidale che inserisce soggetti fragili.

Nata nel 2009 in una sede provvisoria vicino a porta Vittoria, un anno dopo si è trasferita in zona Lambrate (via Adolfo Wildt 27), in un piccolo locale con vetrina sulla strada. Dopo oltre dieci anni di attività la sartoria ha una sua clientela, assicura suor Claudia Biondi, responsabile dell’Area di bisogno Maltrattamento donne della Caritas, che aggiunge: «A volte passa a trovarci anche il parroco di Santa Maria al Casoretto: durante l’oratorio estivo abbiamo organizzato dei laboratori».

Che cos’è Taivé?
È una bottega che offre formazione a 360 gradi a donne, che altrimenti rimarrebbero escluse dal mercato del lavoro, perché soggetti non fragili, ma fragilissimi. All’inizio era nata come bottega per donne esclusivamente rom, ma nel corso del tempo abbiamo scelto di aprire anche ad altre categorie di persone che vivevano in situazione difficili, rendendo l’ambiente multiculturale e più adeguato alla realtà di oggi. È stata una buona scelta, perché ha permesso una maggiore interazione tra situazioni e modi di pensare diversi.

Prodotti di Taivé (foto Tiberio Mavrici)

Che cosa offrite ai vostri clienti?
Interventi di piccola sartoria, come riparazioni e orli, ma anche una serie di manufatti per la cucina e per la casa, oltre a gonne, pantaloni, pigiami, borse, brochure… L’estate scorsa abbiamo lanciato una nuova collezione che abbiamo chiamato “Scarti-amo”: una linea creata utilizzando gli scarti che ci arrivano da realtà a noi vicine. Alla fine, da una stoffa che di fatto è uno scarto, realizziamo un capo prezioso grazie alla collaborazione di un’artigiana di Firenze che crea gioielli e vi abbina bottoni particolari o spille di cera. Ora la cooperativa Vesti solidale ci sta spingendo a realizzare qualcosa di originale anche a partire da magliette, golf e altro. Questo ci consentirebbe di entrare maggiormente nel mercato dell’economia circolare.

Quante donne sono passate finora dal laboratorio? E oggi quante sono?
Ne abbiamo avute in tutto 43, tra rom, kosovare, rumene, srilankesi, nigeriane, italiane e una siriana. Le donne ci vengono segnalate da realtà come la cooperativa sociale Mestieri e la Fondazione San Carlo, che si occupano entrambe di inserimento lavorativo di soggetti fragili, oppure dal Celav (Centro di mediazione al lavoro) del Comune di Milano. All’inizio svolgono un tirocinio lavorativo e, se tutto va bene, vengono inserite con un contratto a tempo determinato. Di solito restano da noi per due anni, il tempo che abbiamo valutato per poter insegnare il mestiere, ma anche per offrire loro la possibilità di acquisire una serie di abilità sociali.

E cioè?
La lingua, perché spesso non parlano l’italiano, la gestione di un conto in banca, il rapporto con il datore di lavoro… Molte donne infatti, specie quelle che provengono dal mondo rom, non hanno assolutamente una tradizione lavorativa retribuita e la maggior parte di loro non ha mai avuto un conto in banca, che rappresenta un forte strumento di emancipazione. Per questo noi non accettiamo che il conto su cui ricevono lo stipendio non sia intestato a loro. Inoltre devono avere un cellulare, perché si possa comunicare con loro. La loro non è solo una deprivazione economica, ma anche di potere. Invece lavorare, ricevere una retribuzione fissa da portare in famiglia è uno strumento di emancipazione molto importante.