Un’idea oltremodo azzeccata quella di scrivere ai coristi e ai direttori dei cori liturgici. In Cantate, cantate al Signore! si legge, da parte del nostro Arcivescovo, monsignor Mario Delpini, la consapevolezza del contributo irrinunciabile che i canti e l’animazione musicale possono dare alla qualità delle nostre celebrazioni. Senza canti e senza musica, il solo parlato del celebrante annoia, arranca, stenta ad arrivare. Non solo: senza il di più di gioia e vitalità che esonda da un coro ben affiatato, si affievolisce la carica testimoniale e missionaria che la liturgia ha inscritta in se stessa (giusto quanto scriveva il cardinale Tettamanzi nel suo programma pastorale Mi sarete testimoni). L’ho toccato con mano nella mia parrocchia: da quando, grazie all’impegno di alcune persone, la Messa domenicale è tornata a essere animata da voci generose e da strumenti brillanti – il flauto e il violino, il violoncello e la chitarra, l’organo e il tamburello – è tutta un’altra musica! E a beneficiarne non è solo la liturgia, ma tutti i presenti che partecipano a un rito che è tornato coinvolgente.
La liturgia da sola non regge
Qui però andrebbe aperta (o, forse, riaperta) una riflessione che un po’ imbarazza, ma che ha la forma di una assoluta priorità pastorale: se la liturgia ha bisogno di musica e canti per arrivare a coinvolgere le persone, è anche perché… la liturgia segna il passo. Da sola, non arriva. Da sola, non regge. Da sola, è gustabile solo da una minoranza di persone che con essa ha maturato una lunga familiarità. Da sola, respinge l’adulto che da anni non entrava in chiesa. Da sola, raffredda il giovane che pure partecipa al gruppo giovani, va in vacanza con l’oratorio, ama le Gmg, prega in cappellina, ma davanti alla liturgia eucaristica si arrende, almeno finché non arriva una Messa animata dai giovani durante la quale rientrare in gioco, appunto, con musica e canti. E – si badi bene – non canti qualsiasi, ma canti che consentano ai giovani di dire la fede con parole che sentano proprie, espressive del proprio cammino, delle speranze e delle fatiche che da giovani stanno affrontando. Parole che la liturgia non conosce.
La scintilla del Concilio
È una storia lunga, questa. È quanto capitò anche a quelli della mia generazione. La riforma liturgica operata dal Concilio aveva fatto molto, ma non tutto. La scintilla – almeno per me – scoccò a fine anni Settanta, quando apparvero quattro canti: Symbolum 77, Vocazione, Canto a te, Io domando.
Quei quattro canti, e molti altri che seguirono, offrirono improvvisamente non solo a me, ma a un’intera generazione di giovani, le parole per dire la propria fede, la propria ricerca, la propria ansia di assoluto, insieme alle gioie e alle difficoltà del credere. Quei canti non servivano solo a ringiovanire un repertorio di canti obsoleto (erano i tempi di Cieli e terra nuova, Io non sono degno, Stasera sono a mani vuote, Resta con noi Signore la sera, È giunta l’ora, ecc). Servivano soprattutto a rendere significativa l’azione liturgica, a renderla un po’ più comprensibile tentando l’ardua impresa di avvicinare l’oggettività del rito alle soggettività che vi si imbattevano.
Da allora e per decenni, si sarebbero scritti canti che garantivano alla liturgia non solo e non tanto un corredo tematicamente appropriato, quanto una potente iniezione di vita reale che riuscisse a ridurre il gap – talora un abisso – tra la vita di ogni giorno e quella liturgia domenicale da cui pure si voleva che scaturisse il rinnovamento della vita dei giorni feriali. Da allora e per decenni, i repertori dei canti si sono riempiti di parole sempre meno inadatte a esprimere le difficoltà di una fede che, come diceva il cardinale Martini, non poteva più essere ereditata (con quella ci cantavi Cieli e terra nuova o il Kyrie), ma doveva essere guadagnata personalmente, certo con la complicità dello Spirito, ma comunque a seguito di un lungo e incerto cammino.
Serve una riforma epocale
Tutto questo per dire che, se è sacrosanto ringraziare (e bene fa il Vescovo a incoraggiare) le nostre corali perché facciano sempre il possibile per abbellire e rendere significative le nostre liturgie, il loro sarà sempre più uno sforzo fine a se stesso se non si porrà mano a una coraggiosa, epocale riforma della liturgia. Il problema non è solo che gesti, parole, ritmi e linguaggi dell’attuale liturgia sono quanto di più distante c’è dalla coscienza di un giovane d’oggi (il credente di domani) abituato a sfrecciare a mille all’ora su tastiere e monitor di ogni genere, quanto che gesti, parole, ritmi e linguaggi dell’attuale liturgia non favoriscono più, e spesso ostacolano, quell’incontro col Signore Gesù per il quale quei linguaggi erano stati cesellati nei secoli.
Gli ultimi trent’anni – lo sappiamo – sono stati segnati da una straordinaria rivoluzione, qualcosa che quarant’anni fa non era nemmeno immaginabile. Vogliamo illuderci che quella rivoluzione, che in un amen ha cambiato usi e costumi di miliardi di persone su tutto il pianeta, possa aver lasciato indenni le nostre prassi ecclesiali e che queste possano ora sopravvivere a quella rivoluzione senza pagare pegno? Illudiamoci pure, se ci fa piacere, purché smettiamo poi di prendercela con i lontani perché non si avvicinano o con i giovani perché non ci sono (a proposito, non ci sono perché sono sani e, se una cosa è noiosa, è noiosa). Proviamo semmai a chiederci quanto poco stiamo facendo perché la forza irradiante del volto di Gesù li raggiunga e quanto noi stessi, arroccati a oltranza nelle mura rassicuranti delle nostre prassi, siamo di contrasto a che questa irradiazione possa ancora raggiungerli.
La Messa nacque due millenni orsono dal ripetersi informale di due semplici azioni: il riunirsi della gente attorno agli apostoli con la voglia di sentire qualche episodio della vita di Gesù (della serie: «Ci racconti di quella volta che…») e il mangiare insieme la cena per fare memoria del Maestro. Quanto è lontana la nostra liturgia da una tale semplicità? Riusciamo a disseppellirla dalla coltre di orpelli che la opprime? Una cosa è certa: se mai tornasse quella semplicità, tornerebbe presto la voglia di ascoltare l’apostolo, di mangiare il pane, di cantare «Tu sei la mia vita, altro io non ho» e tanto altro verrebbe di conseguenza. Violini e tamburelli entrerebbero a go go, e non come stampelle, ma come espressione di una gioia nativa e contagiosa.