Tre percorsi che rappresentano altrettante sfide – la spiritualità, la cultura, la politica -, declinati a partire dagli ultimi, da quel «camminare con i poveri e per i poveri» che ha sempre definito le ragioni di Casa della Carità. Nata per intuizione del cardinale Carlo Maria Martini nel 2002, grazie alla cospicua donazione di Angelo Abriani (a cui è intitolata la struttura), ha la sua anima in don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione omonima. Alla soglia dei vent’anni di vita della Casa, è appunto don Virginio ad accogliere l’Arcivescovo in un dialogo svoltosi alla presenza di ospiti, volontari, operatori (qui sotto l’intervento di don Virginio).
«Come ben avvertiva il cardinale Martini, i poveri ci offrono l’opportunità di guardare al mondo con occhi diversi, più veri e più umani», dice. Con quello sguardo che nasce dalla «frequentazione di quelli che stanno in strada, che bussano continuamente alla nostra porta e per i quali abbiamo ripensato i servizi della Casa con l’iniziativa “Regaliamoci futuro” – avviata prima della pandemia e che ha portato anche a sviluppare sinergie con altre realtà del territorio e nazionali -, proprio per andare incontro alle nuove esigenze, sempre più complesse, di chi ci chiede aiuto», spiega Colmegna. Da qui le tre domande, stringenti, a partire dalla dimensione spirituale di un “farsi prossimo” indicato nello Statuto stesso dell’Istituzione.
Irradiare gioia e affetti per contagiare la città
Come «la Chiesa di Milano come può aiutare la Casa della Carità a infondere nella città la propria energia spirituale?».
Chiara la risposta dell’Arcivescovo, che definisce «commovente» la testimonianza di don Colmegna e parla di «ringraziamento», facendo riferimento a due immagini evangeliche legate alla casa di Zaccheo e a quella di Betania: la prima che accoglie Gesù e si riempie di gioia; la seconda che, con il suo profumo di nardo, indica la forza dei rapporti e dell’affetto. «Come guarire dal pessimismo? La missione della Casa della Carità è irradiare la gioia della condivisione della vita con i poveri, perché non è soltanto un insieme di servizi, per quanto preziosi, ma è un luogo dove ristabilire rapporti affettuosi e rispettosi» (qui sotto l’intervento dell’Arcivescovo).
Il pensiero va all’innalzamento dell’età media di chi fa volontariato, esperienza base dell’energia spirituale che muove il bene. «Chiediamoci perché non troviamo questa energia spirituale così attiva nelle giovani generazioni. Abbiamo un linguaggio per parlare loro? Una sfida è ringiovanire, come dimostra la profezia dell’emigrazione, sapendo che i popoli che si muovono non sono minacce che insidiano la società, ma voci profetiche che possono condividere energia spirituale», scandisce l’Arcivescovo ricordando la Chiesa dalle Genti e il suo fecondo cammino in Diocesi: «Non si può essere cristiani senza prendersi cura dei fratelli, di tutti i fratelli».
La cultura e la sfida alle Università
Poi il secondo interrogativo relativo al percorso culturale della Casa. Osserva don Colmegna: «La cultura a cui aspiriamo è ammantata dalle storie umane che incontriamo. È un sapere emotivo, che sa ancora emozionarsi di fronte a un povero che prende la parola, che chiede, che rende urgente una fraternità che dona legami sociali, “reti di carità”, esperienze che vogliamo continuare a vivere». A chi, allora, parlare? Quali gli interlocutori ai quali rivolgersi «per far crescere una sensibilità e una cultura dell’accoglienza e della solidarietà, soprattutto nella città di Milano», come scrisse il cardinale Martini nel decreto costitutivo della Fondazione?
«La Casa può essere un fermento provocatorio, perché mette in discussione il fatto che la cultura debba essere asservita all’economia, che lo studio accademico sia funzionale al sistema», sottolinea l’Arcivescovo, aggiungendo: «Mi aspetto che le Università di Milano non siano insensibili di fronte a un’economia alternativa e a una cultura che deve essere ripensata. La Casa non può essere un luogo isolato, ma deve offrire il suo sapere, provocando a cercare risposte. La domanda da porre è come potrà rinascere una cultura vecchia come quella europea – che afferma la centralità della persona qualificata per le sue relazioni e non per la difesa dall’altro – senza rinunciare al suo patrimonio culturale», come evidenziano tutte le encicliche e i pronunciamenti del Papa.
Insomma, la cultura cristianamente ispirata di Casa della Carità può dire qualcosa alle Accademie, «avendo non un interlocutore distratto, per cui gli interrogativi sul senso delle cose sono inutili, non uno infastidito, ma quello pensoso. Dobbiamo rinascere dall’alto, come dice il Vangelo. La sfida culturale è determinante nella crisi che stiamo vivendo: non siamo autorizzati a tacere».
La politica a nome dei poveri e oltre gli steccati
Infine, il capitolo politico, laddove Martini parlava «delle perentorie ragioni della carità». Ma quale politica e in quale modo, «proprio perché si rifà a queste ragioni, la Casa della Carità è tenuta a intervenire nel dibattito pubblico?», chiede Colmegna.
«Credo che ci sia un modo di fare politica che è voce di colui che grida nel deserto e che pure incide sulla città, come Giovanni il Battista – risponde Delpini -. Questa voce può essere la Casa della Carità quando domanda chi si cura degli ultimi, di chi ha problemi psichiatrici, di chi non sa dove fare la doccia e dorme per strada…».
«E, ancora, c’è l’agorà, l’entrare in città come Gesù che viene acclamato re, ma la sua è una regalità diversa e così sconcertante che diviene oggetto di scherno. Dunque, come la Casa può fare politica? Gridando nel deserto, denunciando ciò che la politica dimentica ed entrando nella città proponendo un modo diverso di fare politica. Su questo non possiamo essere rinunciatari, ma dobbiamo avere l’umile pazienza di costruire alleanze, di convocare tutti coloro che sono sensibili ad alcuni valori, che siano al governo o all’opposizione. A nome dei poveri vogliamo proporre un’organizzazione inedita dell’organizzazione della città. Forse, come Chiesa, possiamo chiedere tale priorità e su questo punto vogliamo vedere leggi, delibere…».
Una via da percorrere nel futuro e che, comunque, ha sempre visto Casa della Carità in prima linea, non solo per la sua offerta di sostegno e accompagnamento – basti pensare all’inaugurazione delle nuove docce, intitolate a don Roberto Malgesini – o alle 173 famiglie che hanno ricevuto, nel 2020, aiuti alimentari straordinari, oltre le normali attività, con 442 persone ospitate e quasi 600 raggiunte in diverso modo.
Tutto quello per cui don Colmegna conclude: «Alla soglia quasi dei vent’anni di cammino con Casa della Carità spero di continuare a condividere questa passione per la fraternità e la povertà. L’ho sempre vissuta come un dono, che oggi ancora riconsegno sia alla Chiesa ambrosiana, al cui servizio di prete ho dedicato il mio ministero, sia alla Casa della Carità, sperando di diventarne un accompagnatore silenzioso e amico, che può osare di chiedere aiuto».