La sera di mercoledì un gruppo di africani arriva a piedi alla MasterPlast per il tratto di via Stucchi che le forze dell’ordine hanno chiuso al traffico. Sono i familiari di Moussa Campeore. La moglie piange disperata e stringe al petto un bambino di tre anni, che poco dopo un connazionale prende con sé. Varca come una furia i cancelli dell’azienda e l’unico indugio è per nascondere il volto da ragazzina dagli sguardi delle telecamere con un foulard coloratissimo. La si sente piangere a lungo, finché, verso le 21.30, una guardia la riaccompagna a casa. Il suo bambino è già lontano: una donna anziana è venuta a prenderlo in serata.
Al dolore si mischia la paura. I dipendenti – dodici, sette dei quali presenti in ditta al momento dell’esplosione, quasi tutti stranieri – non vogliono parlare. «Sì, sono un lavoratore, ma non posso dire niente, che Dio vi benedica». «Lavoro qui da cinque anni, ma lasciatemi stare». Le parole, pochissime, sono quelle di un paio di lavoratori chiamati probabilmente per fornire informazioni. Solo il bimbo di un operaio sudamericano chiacchiera eccitato e ripete un’avventurosa “versione per piccoli” di un dramma che i genitori non hanno saputo raccontargli diversamente.