Il Comune di Milano sta discutendo sull’istituzione del Registro sul fine vita. Sono stati infatti depositati il testo di una delibera dalle consigliere Marilisa D’Amico (Pd) e Patrizia Quartieri (Sel) e due proposte dei radicali e dall’associazione Io Scelgo. Un tema delicatissimo al quale dedichiamo questa settimana le riflessioni del giurista Luciano Eusebi (qui sotto) e del medico Alfredo Anzani (in allegato).
L’istituzione del Registro in esame, per sé, non può mutare nulla nell’ambito di una materia che soggiace senza dubbio alla legislazione statale. La sua efficacia verrebbe a essere di fatto. In pratica, s’intende sancire che una dichiarazione pregressa di rinuncia a trattamenti sanitari, valida ove il malato non sia in grado di interagire col medico, vincoli il medico cui si chiederà, in futuro, di prestare assistenza ad astenersi da tali trattamenti, senza alcuna valutazione sul significato che essi assumano circa lo stato di salute attuale del malato. Esito il quale implicherebbe, a fortiori, escludere qualsiasi analoga valutazione nel caso in cui un malato cosciente richieda al medico di agire per interrompere un’attività terapeutica in corso.
Ora, è sì condiviso che il medico si astenga (salvo, eccezionalmente, un diverso desiderio del malato) da terapie sproporzionate e possa interrompere, in linea di principio, terapie che tali siano divenute: né si nega che il giudizio sulla proporzionatezza possa tener conto, nell’ambito di criteri omogenei e non soggettivizzabili, di taluni elementi relativi al vissuto personale del paziente. Ma altra cosa sarebbe introdurre, secondo le modalità predette, il diritto di esigere una cooperazione del medico orientata alla morte, cioè il cosiddetto diritto di morire.
Quali i rischi? Introdotto tale diritto, ricevere assistenza terapeutica in condizioni di grave precarietà esistenziale verrebbe a costituire non più la normalità, ma l’oggetto di una scelta del malato: cioè di una pretesa nei confronti della società. Con un’inevitabile pressione psicologica su persone particolarmente vulnerabili, e sulle relative famiglie, a liberare la società dagli oneri dell’impegno in loro favore. Sarebbe davvero miope non rendersi conto del fatto che dietro le dispute sul diritto di morire vi sono (anche) considerazioni di carattere economico. Per cui – fermo l’impegno contro il cosiddetto accanimento terapeutico e al fine di garantire l’accesso alle cure palliative – è fondamentale evitare che si determinino trend culturali i quali favoriscano la rottamazione dei soggetti più deboli.
Problema tanto più delicato ove si voglia consentire di interrompere anche l’idratazione e l’alimentazione: posto che ciò riguarderebbe, in pratica, persone le quali vivono situazioni di forte menomazione senza, tuttavia, essere mantenute in vita da terapie intensive e senza trovarsi in condizioni terminali. Così che una conclusione in tempi brevi della loro esistenza, esclusa l’eutanasia attiva, potrebbe essere ottenuta solo privandole di elementi necessari per la sopravvivenza di ogni individuo.
La rinuncia anticipata a determinate terapie si colloca, inoltre, in un momento non attuale rispetto a quello della sua efficacia, il che dà spazio a logiche di rimozione della prospettiva di una malattia. Del resto, il rifiuto di terapie benché proporzionate riflette molto spesso difficoltà umane e psicologiche. E anche per questo appare inaccettabile delineare ambiti in cui il ruolo del medico si configuri meramente esecutivo.
Non a caso, la Convenzione di Oviedo prevede che il medico tenga in considerazione i desideri precedentemente espressi da un malato non in grado di esprimere la sua volontà, ma non attribuisce ad essi rilievo vincolante: secondo una finalità, dunque, per la quale non sono necessari Registri come quelli in discussione, che si spiegano soltanto onde far valere quanto in essi dichiarato a prescindere da qualsiasi ruolo del medico.
Ben più del diritto di morire, oggi viene richiesto dalle famiglie di non essere lasciate sole nell’assistenza in caso di malattie fortemente invalidanti. Ben più che la solitudine decisionale sulla vita e sulla morte, si desidera poter far riferimento a criteriologie condivise di proporzionalità delle terapie. Ben più di una contrattualizzazione del rapporto medico, che genera gli esiti nefasti della cosiddetta medicina difensiva, è avvertibile il bisogno, una volta archiviato il paternalismo medico, di poter pur sempre far conto nelle condizioni di maggiore difficoltà esistenziale su profili di affidamento, tipici dei contesti sociali solidaristici: e, dunque, su una corretta alleanza terapeutica, che non mortifichi la professionalità del medico.