Sono agghiaccianti le immagini dei soprusi e della violenza gratuita perpetrati nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere. Ma, oltre le immagini, tre elementi attestano che non si può derubricare il caso a un episodio isolato ascrivibile a “mele marce”: la circostanza del coinvolgimento di decine di soggetti comprensivi di un segmento della catena di comando; la singolare circostanza che sia trascorso oltre un anno prima che la notizia filtrasse (a conferma di una inquietante dose di omertà); la sensazione che, se non vi fossero state le immagini registrate, forse mai ne saremmo venuti a conoscenza. Il che autorizza a chiedersi se altri casi, si spera non così estremi, semplicemente non siano filtrati. Lo sdegno è sacrosanto. Ma non possiamo fermarci lì. Ho un amico dirigente della polizia penitenziaria. Persona degnissima, di grande umanità e professionalità. Da lui ho ascoltato il giudizio più severo, da operatore della giustizia ferito nell’intimo. Preoccupato del discredito che potrebbe investire un corpo di polizia spesso trascurato che fa un lavoro tanto prezioso e difficile.
Sono andato a rileggere le riflessioni del cardinale Martini, che ebbe una attenzione e una sensibilità specialissime per i detenuti, la condizione carceraria, il senso della pena detentiva. Sin dal suo ingresso a Milano. Cito: «Per me vescovo quella del carcere e dei carcerati è un’esperienza fondamentale… Il carcere è il luogo in cui avverto più che mai il mio servizio di vescovo». Dovremmo esserne partecipi anche noi cristiani comuni (e cittadini responsabili). Si comprende il perché: la colpa, l’espiazione, la responsabilità, la conversione, il ravvedimento, la riconciliazione, il perdono sono temi che incrociano la Rivelazione cristiana. Sui quali essa e la Chiesa che ne è custode hanno una parola originale, ma non priva di una proiezione sul piano civile e penale. Con una premessa: «Il problema del carcere viene ancora oggi rimosso dalla vita della comunità per paura o senso di colpa; pur essendo gestito dallo Stato, in realtà è privatizzato», volentieri delegato agli addetti ai lavori. Facile, troppo facile limitarsi allo sdegno occasionale. Se non fossimo così insensibili e persino ipocriti, dovremmo osservare con schietto realismo, come fece Martini, che gli ineccepibili principi costituzionali circa la funzione rieducativa (meglio: riabilitativa) della pena non trovano effettivo riscontro nella concreta realtà carceraria («le cose vanno diversamente»). Non per concludere semplicisticamente che il carcere possa essere abolito: in una società imperfetta «abbiamo bisogno di strutture di deterrenza e di contenimento», ma, questo sì, per porsi anche, con coraggio, domande scomode del tipo: «È umano ciò che i detenuti stanno vivendo, è efficace per un’adeguata tutela della giustizia, serve alla riabilitazione e al recupero?».
Interrogando da un lato la Scrittura e dall’altro l’evoluzione del diritto penale, Martini approda a quattro conclusioni. La prima: il carcere va concepito e praticato come extrema ratio, come soluzione ultima e temporanea. Dando priorità alle pene alternative. La seconda: se, non a parole, il loro fine è quello riabilitativo, le pene, pur nel quadro di regole generali, dovrebbero essere, per quanto possibile, personalizzate, utili cioè anche a incoraggiare il percorso di un soggettivo ravvedimento del reo. La terza: l’asimmetria tra il reo e lo Stato, il quale dovrebbe dare mostra, in concreto, di non ripagare il male con il male. Come potrebbe altrimenti propiziare il ravvedimento? Qui sta il vulnus più grave di episodi come quelli di cui sopra. Quarto, ai cristiani sono richiesti due ulteriori atteggiamenti: quello di confidare nella circostanza che non vi siano persona o situazione, anche le più apparentemente compromesse, che precludano il riscatto e la rigenerazione; e quella della comune quota di responsabilità nella radice del male e del peccato. Da non fraintendere come cancellazione delle responsabilità individuali o come facile perdonismo. Non cioè in omaggio a una corriva sociologia deresponsabilizzante. Ma nella consapevolezza (teologica) che nessuno è immune dal male che abita il mondo, a motivo della nativa ferita rappresentata dal peccato d’origine del quale c’è traccia in ciascuno di noi.
A vincere la facile, abituale rimozione, ci dà l’occasione la bella mostra fotografica che dobbiamo, ancora una volta, a Margherita Lazzati dal titolo «Il carcere: quartiere della città», allestita ai primi di luglio presso la Società Umanitaria. Scatti di interni di San Vittore accompagnati da cinquanta storie di vita di persone che vi risiedono o lo frequentano. Nel titolo sta la provocazione: San Vittore sta nel cuore urbanistico di Milano. Forse meno nel cuore o almeno nella conoscenza dei milanesi.