«Gesù dice ai discepoli mediocri, tra cui ci riconosciamo: “Voi mi avete lasciato solo, io non vi lascerò mai soli. Voi non mi avete capito, io continuo a capirvi, ad amarvi e a perdonarvi”. Che sarà, dunque, di noi? Questo sarà: continueremo a celebrare l’Eucaristia, quella comunione che continuerà a essere dono, amicizia, vita condivisa, amore che ci rende capaci di amare».
I discepoli che non capiscono, non resistono, che hanno paura: insomma noi, tutti quelli a cui si rivolge l’Arcivescovo che presiede, in Duomo, la Messa nella Cena del Signore, concelebrata dai vescovi, monsignor Franco Agnesi, Angelo Mascheroni, Paolo Martinelli e dai Canonici del Capitolo metropolitano. Celebrazione che non prevede, quest’anno, il Rito della lavanda dei piedi e che si apre con il Rito della luce.
Sera a Milano che fa memoria “della notte in cui fu tradito” a Gerusalemme con quei discepoli tanto simili nei secoli, ieri e oggi, per cui il vescovo Mario, nell’omelia, dice: «Noi non ci identifichiamo con il traditore e con la sua disperazione; con Pietro e con la sua passione esuberante che lo espone al rinnegamento. Non ci identifichiamo neppure con i figli di Zebedeo che Gesù ha chiamato a inoltrarsi in quella notte di tristezza e angoscia. Noi possiamo riconoscerci con i discepoli che non sono nominati». E, come loro, «siamo quelli che non capiscono l’annuncio del Vangelo di Gesù, di quale regno Gesù stia parlando, di quale evento decisivo per la storia dell’umanità essi siano testimoni. La rivelazione è troppo alta e noi non la comprendiamo: siamo i discepoli che non capiscono».
E, ancora, noi siamo quelli che si addormentano mentre il Signore deve prendere l’estrema decisione. «Siamo tra quelli che sono spossati, logorati dalla tensione, insofferenti nei confronti di un contesto ostile e di una situazione opprimente. Siamo tra quelli che non resistono» E che, oltretutto, hanno paura perché «il potere che Gesù ha provocato e sfidato è troppo impressionante, dispone di troppi mezzi, spaventa con spade e bastoni». E, quindi, è meglio «salvare la pelle piuttosto che un amico; rendersi irreperibili, piuttosto che essere esposti a pubbliche accuse, derisioni, violenze». Perché anche oggi «essere riconosciuti come “coloro che erano con Gesù”, di fronte a temi impopolari e contro corrente, poco coerenti con il politicamente corretto, è imbarazzante e mette a disagio. Forse non ci sono pericoli reali, ma la paura consiglia di fuggire: essere anonimi è meglio che essere riconosciuti».
E, così, nasce spontanea la domanda a cui dà voce l’Arcivescovo: che ne sarà di noi, consapevoli della nostra inadeguatezza?. «Eppure, proprio in questo sentirci una delusione per colui che ci ha chiamati, proprio in questo sentirci inadeguati alla missione che ci è affidata, noi riceviamo il principio di ogni consolazione: “Prendete, mangiate; bevetene tutti: questo è il sangue della nuova alleanza”. Gesù dice: “io continuo ad amarvi, io continuo a darmi per voi”».
Poi, i tanti gesti pieni di un profondo significato di fede, come nel Canto dopo il Vangelo, il “Coenae tuae” che rappresenta una delle antifone più suggestive della tradizione ambrosiana.
Il ringraziamento, a conclusione della Celebrazione, che ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, è per coloro che le rendono onore e le prestano servizio: l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento, i Cavalieri di Malta e i seminaristi presenti, che sono stati istituiti accolti precisamente per tale servizio. Un particolare ricordo va ai preti che celebrano l’Eucaristia nelle loro comunità, a partire dal Papa e dal cardinale Scola; per i sacerdoti malati e impediti a celebrare e anche per coloro che hanno lasciato il Ministero ordinato che l’Arcivescovo dice di seguire con affetto.
Infine, a conclusione della Celebrazione, è l’Eucaristia a essere portata, in processione, all’altare della Riposizione, dove resterà fino alla Veglia Pasquale.