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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Musica

Lucio Dalla, il poeta che cantava

Nelle parole e nelle note del cantautore bolognese, morto improvvisamente d’infarto a pochi giorni dal suo 69° compleanno, una lettura sapienziale della vita

di Marco TESTI

1 Marzo 2012
© Fabio Ferrari - LaPresse
18-02-2012 Sanremo (Imperia)
spettacolo
62mo Festival della canzone italiana  - serata finale
nella foto: Lucio Dalla

© Fabio Ferrari   - LaPresse
18-02-2012 Sanremo (Imperia)
"Festival della canzone italiana" - final evening
in the photo:  Lucio Dalla

«Le volpi con le code incendiate non parlano ma gridano pazze/ fra gli alberi per il dolore».
Era vero. È vero. Il dolore non si può dire a parole, non è più né poesia né canzone, né retorica. Se mai solo la condivisione può avvicinarsi all’ustionante dimensione della sofferenza, per sentire insieme. Altrimenti è inutile. Con un’eccezione: quei due versi di Roberto Roversi cantati da Lucio Dalla in un disco che finché il sole splenderà rimarrà uno dei più importanti della musica e della poesia italiana del Novecento, Anidride solforosa.

Adesso che Lucio Dalla se ne è andato all’improvviso, mancando di tre giorni l’ormai famoso 4 marzo (per via di una canzone eseguita all’odioso-amato Sanremo), quando avrebbe compiuto 69 anni, ci si rende conto che le sue “canzonette” – soprattutto quelle scritte insieme a Roversi tra il 1974 e il 1977 – hanno fatto anche un pezzo di storia della letteratura contemporanea. Perché se è vero che finalmente le antologie letterarie si stanno adeguando inserendo le poesie – perché di poesie si tratta – di Cohen, Dylan, Brel, Brassens, De Andrè, Lennon, McCartney e altri, è altrettanto vero che in quell’irripetibile periodo sono apparse alcune tra le più belle canzoni d’autore: per rimanere a Dalla e Roversi, Tu parlavi una lingua meravigliosa (e si guardi alla semplice e spoglia bellezza dei titoli), da cui abbiamo tratto i versi iniziali, la stessa Anidride solforosa, e poi L’auto targata TO o L’operaio Gerolamo.

Cinquant’anni di carriera piena, dal jazz dei primordi con gli Idoli e i Flippers alle canzoni più vicine all’impostazione dei suoi idoli (Ray Charles e James Brown), come Paff…bum! e Questa sera come sempre, alla semplicità, che non vuol dire minor impegno artistico, de Il gigante e la bambina (una canzone in cui si parlava della pedofilia) e Piazza Grande (con protagonista un senza tetto) o La casa in riva al mare (la storia di un carcerato), il periodo della denuncia sociale con Roversi e poi il ritorno a una concezione più popolare della canzone, ed ecco il tour con De Gregori, Bugie, DallAmericaCaruso e tanti altri successi, oltre che vere e proprie “spedizioni di confine”, nella lirica, nel teatro e nel cinema.

Ma di lui rimane anche un’altra lezione: la sua indipendenza. Attaccava lo sfruttamento e la violenza del sistema senza mai essersi dichiarato marxista, e questo, ai suoi tempi, era un’eresia, a sinistra. È riuscito a dare voce a mendicanti, operai morti sul lavoro, pazzi, emarginati senza fare propaganda di partito, ma anzi, affermando sempre la sua identità di cattolico. E questo nel mondo della cultura, non era una passeggiata: erano i tempi in cui si faceva a gara nel dichiararsi più a sinistra di chi stava a sinistra del Pci e nello sventolare un brillante, intelligente, ipercritico materialismo ateo.

Dalla non ha mai voluto sentir parlare di conversione, perché lui cristiano si è sempre sentito. Non è tanto per la sua partecipazione ad appuntamenti ufficiali, come “La notte dell’Agorà” o per alcuni testi chiaramente riferiti a Dio, ad esempio I.N.R.I. o Come il vento (ma tanti anni prima, nei Sessanta aveva cantato Il cielo), ma per una impressionante, anticonformistica presenza di immagini sacrificali nella sua musica e nei suoi testi, fossero essi viaggiatori senza meta, uomini soli e apparentemente privi di uno scopo nella vita, abbandonati da tutto e da tutti. Ha fatto più politica sociale (nel senso nobile del termine) lui che tutti i partiti dell’arco costituzionale, perché milioni di persone, giovanissimi e attempati padri di famiglia hanno amato – e talvolta capito – le ragioni dei clochard, dei carcerati, dei solitari, degli sfruttati e degli emarginati.

Valga per questo nostro ultimo saluto quello che Roversi scrisse sulle note di Anidride solforosa: «Io ti segno a dito e tu segna pure me: sono felice». Nonostante la tristezza dell’addio, rimane la felicità di quella lunga stagione in cui bellezza e autenticità hanno camminato insieme. Grazie per questo.