18/11/2008
di Nico CURCI
Economista
Grande era l’attesa per gli esiti della riunione del G-20 a Washington dello scorso fine settimana. I capi di Stato e di Governo dei principali Paesi sviluppati, insieme con quelli delle grandi potenze emergenti, erano chiamati a un consulto sulle prospettive del grande malato degli ultimi tempi, l’economia mondiale, infettata dal virus della crisi finanziaria.
Ovviamente il gran consulto non ha prodotto molto altro che una dichiarazione di intenti, in cui si ribadisce il desiderio di lavorare fianco a fianco, per il coordinamento nell’uso delle leve di politica economica dei singoli Stati. Quanto meno è sempre più evidente che i Governi hanno appreso bene la lezione del 1929: la mancanza di coordinamento rischierebbe di far sprofondare il mondo nel baratro dell’arretramento economico, con spaventose conseguenze sociali non solo nei Paesi più poveri, ma anche in quelli più ricchi.
Tuttavia qualche nube ancora si addensa su questo idilliaco quadretto di concordia planetaria intorno alle cause e soprattutto intorno ai rimedi per la grave crisi in atto. Il più grande è proprio legato alla situazione politica degli Stati Uniti. Che cosa vuole fare davvero Obama? Che strategie ha in mente per uscire dalla crisi?
Le prime avvisaglie suscitano un po’ di allarme e c’è chi al vertice di Washington lo ha detto a chiare lettere. Tra questi, il premier britannico Gordon Brown ha ammonito gli Usa sugli effetti devastanti che il salvataggio pubblico dell’industria automobilistica americana avrebbe sul resto del mondo. Se la maggioranza democratica del Congresso e lo stesso Obama spingeranno in questa direzione, c’è il serio rischio che si apra una guerra commerciale ad ampia scala che potrebbe davvero portarci al disastro.
Il motivo è presto detto. Il salvataggio pubblico dell’industria automobilistica americana spingerebbe quella europea a chiedere lo stesso. Se i Governi non avranno soldi a sufficienza, la tentazione di usare le politiche commerciali per proteggere le industrie nazionali sarà fortissima, probabilmente perché l’opinione pubblica spingerà pesantemente in questa direzione; ma ciò si tradurrebbe proprio in una riduzione del commercio mondiale e così il 1929, scacciato dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. C’è da augurarsi che Obama riesca a resistere alle pressioni del suo partito, in nome di quella leadership globale che il mondo gli riconosce.
Nell’attesa di vedere come evolve questa decisiva partita nell’ambito delle relazioni internazionali, nel nostro orticello italiano iniziano a delinearsi le prime misure che il Governo intende varare per far fronte alla crisi economica. Il ministro Tremonti parla in questi giorni di 80 miliardi di euro da spendere. Per lo più si tratta di risorse già disponibili che il Governo vorrebbe utilizzare per rilanciare gli investimenti infrastrutturali, per sostenere la spesa in ricerca e innovazione delle imprese e per rilanciare i consumi delle famiglie. I dettagli li vedremo entro fine mese.
È importante però ricordare, oggi più che mai, che la grande sfida italiana dei prossimi due anni sarà la gestione del debito pubblico: se in questo momento di grande nervosismo dei mercati il Governo mostrasse segni di debolezza sul fronte del controllo del deficit, e quindi del debito, il rischio di un fallimento della Repubblica italiana diventerebbe molto concreto.
A quel punto, una grande fetta di risparmio italiano ed europeo andrebbe in fumo. E con esso anche decenni di progresso economico. Uno scenario catastrofico che bisogna sempre considerare come possibile, almeno fino a quando non saremo capaci di abbattere quella cifra di oltre 100 punti percentuali di debito sul Pil che mina il futuro dell’Italia. Quando questo Paese diventerà davvero cosciente del pericolo che corre?