22/10/2008
di Pino NARDI
Ogni giorno la cronaca registra incidenti sul lavoro, spesso mortali. Un dramma a cui va data una risposta concreta. Anche la Chiesa ambrosiana e lombarda offriranno un contributo in un dibattito venerdì 24 ottobre a Milano. Su questo tema, che interroga le coscienze di tutti, il Percorso pastorale non manca di sottolinearne l’urgenza. Perché i dati dicono di un fenomeno diffuso: circa un milione di incidenti in Italia con quasi 1200 morti. Una strage.
Anche la Lombardia piange molti lutti. Secondo i dati dell’Inail sul secondo trimestre 2008 è rimasto in pratica invariato il numero di deceduti sul lavoro: 48 contro i 49 dello stesso periodo dell’anno scorso. Da gennaio a giugno sono 83. Un dato positivo è il leggero calo di infortuni del 4,3%: 39.517 contro i 41.300 dello stesso periodo del 2007 . La categoria più colpita è l’industria, con un leggero aumento nell’agricoltura.
«La questione fondamentale è che la vita del lavoratore va rispettata nella sua dignità, che non sia colpita provocando malattie o incidenti fino alla morte – sottolinea don Raffaello Ciccone, responsabile dell’Ufficio di Pastorale del lavoro della diocesi di Milano e delegato regionale -. L’enciclica Laborem exercens dice che il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro, perciò deve essere un diritto fondamentale. Tuttavia esistono moltissime situazioni in cui si può far diventare precario non solo il tempo di lavoro, ma addirittura la vita o la salute».
Oltre ai dati di infortuni e morti, si tralasciano altri fenomeni difficilmente quantificabili: «Per esempio, non si sa quanto incidono le malattie professionali – dice don Ciccone -, perché molti arrivati alla pensione scoprono mali come i tumori e muoiono in conseguenza del tipo di lavoro svolto. Di questo non se ne parla mai, salvo in alcuni particolari casi eclatanti tipo l’amianto. E poi c’è anche un altro problema preso ancora poco in considerazione: il mobbing».
Che fare dunque? «Prima di tutto la sicurezza sul lavoro dovrebbe essere considerata una risorsa per l’azienda e non una voce di costi economici aggiuntivi – risponde – questi ci sono, però sono senz’altro molto meno di quello che si spenderebbe dopo gli incidenti. Quindi è una garanzia e un investimento. Esistono purtroppo molte imprese che non la pensano così e non colgono il valore aggiunto che ricade invece sulla società intera con i morti o per il costo della sanità per coloro a cui viene compromessa la salute permanentemente». Un secondo aspetto: «Ci sono buone leggi, ma se non si controlla l’applicazione, non servono a niente».
Nella riflessione di Ciccone non può mancare l’aspetto formativo, con una proposta concreta. «Nella stessa legislazione c’è la possibilità, anzi l’impegno, di fare corsi nelle aziende. Molte volte il punto è proprio la mancanza di conoscenza. Negli anni Settanta le 150 ore hanno sviluppato il mondo operaio verso una maggiore coscienza. Oggi non le fa più nessuno. Invece questa potrebbe essere un’occasione molto interessante di aggiornamento».
Il fenomeno-infortuni è spesso sinonimo di lavoro nero. «Intanto, non solo bisogna intervenire perché non ci siano incidenti, ma anche per ridurne al minimo le cause, perché non è soltanto fatalità – sottolinea don Ciccone -. Gli infortuni molte volte sono provocati da un sistema economico produttivo che tende a strafare con la ricerca del profitto, dove i tempi di lavorazione riducono le possibilità di attenzione. In questo contesto allora diventa sempre più allarmante il lavoro nero: non ci si preoccupa che le persone conoscano o si cautelino, si danno poche indicazioni e poi si arrangiano loro. Spesso c’è superficialità, perché un lavoratore prende confidenza e rischia magari sbadatamente o perché si sente sicuro. Ma qui le aziende dovrebbero essere implacabili a far rispettare le norme».
Spesso sono gli immigrati quelli “in nero”: «Per loro c’è il problema della lingua italiana che non conoscono. A volte l’incidente avviene nel primo giorno di lavoro: in passato si correva a regolare la situazione di chi si era fatto male».
Anche le comunità cristiane possono giocare un ruolo. «Hanno un compito educativo verso i ragazzi: non accettare che ci sia lavoro in nero – afferma don Ciccone -. Devono essere attente alle realtà del territorio, perché non ci siano queste forme. In gioco c’è il rispetto della vita: si insiste giustamente su quella che nasce o che muore. Però “in mezzo” dovrebbe esserci altrettanta attenzione, perché la vita non sia distrutta sul lavoro».