16/04/2008
di Pino NARDI
«Un appello alle Caritas locali, alle comunità parrocchiali, al territorio: adoperarsi per avere in tutte le zone pastorali della diocesi un appartamento di residenzialità leggera, in collaborazione con le cooperative del consorzio “Farsi prossimo” accreditate per attività di psichiatria». È la proposta lanciata da Paola Soncini, responsabile dell’Area salute mentale della Caritas Ambrosiana.
Cosa si intende per salute mentale?
Il problema della salute mentale è che fa ancora paura, è più facile nasconderlo che farlo emergere e affrontarlo. Richiede una formazione sulla capacità di gestire le proprie emozioni. È necessario parlarne perché è un percorso che si fa nella vita: oggi si ha uno stato, ma questo non esclude che tra un mese o un anno si possa vivere un periodo difficile, dal quale però, se si è sani, ci si riprende. Perciò il nostro punto di partenza è sensibilizzare. Certo, la cronicità è un conto, la normalità un altro.
Quanto viene lasciato sulle famiglie il peso di gestire situazioni molto difficili?
Ci sono nodi critici a livello di sanità pubblica che non possiamo dimenticare, problemi di finanziamenti che non consentono di far fronte a tutte le richieste. I familiari a volte si trovano da soli, non hanno spazi di confronto a livello pubblico.
E invece cosa fate come Caritas?
Forniamo il supporto ai centri di ascolto. Ai volontari non si chiede di essere tecnici, ma persone che attraverso la formazione siano più capaci di ascoltare e di affrontare le situazioni di criticità.Poi è sempre necessario l’intervento di un esperto, un medico, uno psichiatra, ma c’è bisogno anche di una rete di relazioni che aiuti le famiglie che hanno un malato psichico, perché oggi la tendenza è metterli ai margini. L’idea di fondo è contrastare queste forze centrifughe, l’isolamento, il pregiudizio e aiutare le persone a capire che certi sentimenti ed emozioni come la paura della malattia mentale, hanno ragione di essere, ma non vanno assecondate. C’è un senso di inadeguatezza e quindi la tendenza generale è dire che riguarda solo gli esperti.Non è vero: possiamo lavorare su quest’aspetto di reinserimento sociale nelle comunità, di accompagnamento senza sostituirci al servizio pubblico. Questa è la scelta che la Caritas ha fatto. Noi collaboriamo e cerchiamo di riagganciare le persone ai centri psico-sociali, far sì che seguano quello che il medico ha loro prescritto, facciamo un’opera di supporto ai familiari, di ascolto, a volte anche di informazione, perché magari non sanno bene qual è la patologia del proprio congiunto.
In quanti centri di ascolto sono presenti persone che si occupano di salute mentale?
Abbiamo iniziato l’anno scorso un percorso per alcuni decanati che hanno deciso di fare corsi di sensibilizzazione, così i centri di ascolto avranno persone formate in modo specifico. L’ideale è che ogni decanato ne abbia uno, ma siamo solo agli inizi. Abbiamo già realizzato diversi corsi di primo livello rivolti anche alla cittadinanza, ai familiari, alle persone interessate. Quando c’è invece un gruppo di volontari disponibile a dedicare tempo abbiamo pensato a un secondo livello un po’ più tecnico. A loro garantiamo un lavoro di supervisione, di accompagnamento dei casi che possono rivolgersi al centrod’ascolto.
Come sono i rapporti con le istituzioni pubbliche?
A livello operativo ci sono le cooperative del consorzio “Farsi prossimo” accreditate per attività di psichiatria. Possono erogare un programma riabilitativo di residenzialità leggera. Alcune di queste cooperative hanno un rapporto ottimo con i servizi pubblici. Certo non mancano aspetti problematici con le varie delibere regionali, sottolineato da un Documento firmato dalle Caritas della Lombardia. A livello regionale c’è stato il problema economico a spingere per questo programma riabilitativo, perché sicuramente costa meno che avere una comunità. Ma non crediamo che sia solo una questione economica, risolta la quale tutto funziona bene, perché queste persone sarebbero abbandonate a se stesse.
Come siete impegnati nella residenzialità leggera?
Di questo abbiamo iniziato a parlare dopo la delibera regionale del febbraio 2007. Si tratta di un programma riabilitativo:persone un minimo stabilizzate possono vivere in appartamenti (massimo in 5) e non più di due per stabile, per non ricreare strutture di tipo manicomiale. Vengono così reinseriti nel contesto ordinario. Una persona va a verificare che stiano bene, prendano i farmaci, che abbiano un inserimento lavorativo. Però ci sono anche problemi: un conto è avere qualcuno sempre lì che si accorge se la situazione degenera, un altro è rendersene conto dopo ore. Poi c’è l’inserimento sociale in un quartiere dove la persona è sconosciuta: è difficile per chi sta bene, figuriamoci per chi ha un disagio psichico. Però abbiamo visto che può essere anche una grande opportunità: riprende a fare una vita normale, perché avere una casa vuol dire usufruire del medico, inserirsi in un contesto sociale, disporre del diritto di cittadinanza.
Quale può essere il ruolo delle comunità cristiane?
Il problema che Caritas si è posto è come possiamo sensibilizzare le nostre comunità per accogliere queste persone. Sarebbe importante invitarle ad andare al cinema, a un incontro in parrocchia, a un cineforum in quartiere, a una cena comune, a un momento ricreativo. Piccole cose, ma fondamentali, perché la persona possa ritrovare una sua dimensione ordinaria. Non si chiede di avere una laurea in psicologia o in medicina, ma di essere attenti alla loro realtà umana e relazionale.