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Scuola

Non chiamiamoli più “alunni stranieri”

Grazie a loro la partecipazione al sistema cresce, e la multiculturalità procede spedita nelle aule scolastiche

di Alberto CAMPOLEONI

28 Maggio 2015

Il Rapporto annuale Istat 2015 mette in evidenza come nell’anno scolastico 2013/14 è cresciuta leggermente la partecipazione al sistema scolastico, grazie anche agli alunni stranieri: il tasso di scolarità della fascia di età 14-18, calcolato considerando solo gli iscritti alla scuola secondaria di secondo grado, ha raggiunto infatti il 93,6% (era il 93,1 l’anno precedente). E lievita la presenza di alunni stranieri (+2,1% rispetto all’anno precedente): sono oltre 800 mila, il 9% della popolazione scolastica.

“Dietro” questa notizia che viene dall’indagine statistica, astratta e fatta di numeri, c’è una realtà molto concreta fatta di volti e persone, di ragazzi e ragazze che tutti i giorni incrociano le loro quotidianità. Stranieri, e italiani, insieme sui banchi di scuola. “Stranieri”, poi non è il termine esatto. Parlare di “alunni stranieri” è infatti quantomeno improprio perché – lo dice Vinicio Ongini, esperto del ministero dell’Istruzione per la scuola multiculturale – «in maggioranza (51,7%) si tratta di bambini nati in Italia che parlano italiano e persino il dialetto locale».

Lo sanno bene le mamme che accompagnano i loro figli a scuola, alle elementari, ad esempio. E più ancora lo sanno i coetanei, tra loro, condividendo con i compagni di ogni nazionalità non solo i banchi, ma anche i campi di calcio, i parchi, gli oratori. L’integrazione passa da qui. E cammina veloce, anche per chi non è nato in Italia, arriva già grandicello, con mille difficoltà. Eppure, il percorso scolastico, soprattutto nelle classi della primaria, diventa un’occasione straordinaria per l’inserimento.

In alcune Regioni e in speciali realtà ci sono scuole nelle quali gli “stranieri” costituiscono addirittura la maggioranza. In particolare, in Italia sono 510 le scuole che hanno più del 50% di tali alunni, e di queste almeno 40 arrivano (e superano) all’80%.

A volte si è parlato di “scuole ghetto”, con polemiche proprio sulla forte presenza di alunni non italiani in alcuni plessi, ritenuti per questo “svantaggiati”.  Polemiche spesso legate a realtà urbane importanti, grandi città e quartieri periferici. In realtà – è sempre Ongini a confermarlo – la realtà delle scuole multiculturali è più forte in provincia, nelle realtà piccole piuttosto che nelle metropoli.

La “scommessa” della scuola – sempre – è quella di creare opportunità. Nel caso specifico, per esempio, quella di integrare le diversità e di valorizzare le risorse di ciascuno. E proprio questa attenzione è finita sotto i riflettori nel primo incontro tra le “scuole multiculturali” dei capoluoghi italiani, a Roma, sabato scorso (laboratorio #lamultiscuola, coordinato da Ongini). Un’occasione per fare il punto su come l’immigrazione abbia cambiato la scuola e per confrontarsi – tra insegnanti, dirigenti e anche genitori – sulle “buone pratiche”, sui progetti, sulle difficoltà nei percorsi messi in atto per trasformare contesti impegnativi e difficili in laboratori di inclusione e di crescita.

Una “prima volta”, annotavano i media. C’è da augurarsi che non resti isolata: la condivisione, il confronto di esperienze, la trasparenza dei percorsi – con i punti di forza e di fragilità – fanno la ricchezza del sistema di istruzione. In altri termini, la Buona scuola.