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Liegi

Il silenzio delle vittime della strage

Intervista a padre Eric de Beukelaer, decano della città belga

15 Dicembre 2011
Ambulances and police are parked on the Place Saint-Lambert in Liege as a medical team arrives in the area after a gunman attack on December 13, 2011. A lone gunman was behind today deadly attack on a city square crowded with children and Christmas shoppers in the Belgian town of Liege, the public prosecutor said.  Prosecutor Daniel Reynders said the gunman was among the two dead in the attack, that left 64 people injured, some of them seriously, Belga news agency said. AFP PHOTO / BELGA / MICHEL KRAKOWSKI

Dolore e choc anche per la comunità cattolica di Liegi, la città belga scossa da un folle attentato omicida che ha provocato la morte di sei persone (tra cui 3 ragazzi e un bambino di 2 anni) e 125 feriti. La sera dell’attentato la comunità cattolica si è unita in preghiera nella chiesa di Saint-Barthélemy.

«Una violenza cieca e inumana ha seminato morte e terrore nel cuore della nostra città – ha detto il vescovo di Liegi, monsignor Aloys Jousten -. Quanta sofferenza inutile e inaccettabile. Alle vittime, alle famiglie provate, alla popolazione sotto choc, esprimo la mia vicinanza e il mio sostegno morale. Tutti hanno un posto nella preghiera dei cristiani della diocesi. Vorrei anche ringraziare le forze dell’ordine e le autorità civili per il loro coraggio e il loro impegno».

Don Eric de Beukelaer, ex portavoce della Conferenza episcopale del Belgio e ora decano nella città di Liegi, si trovava vicino alla zona della strage. Ecco la sua testimonianza.

Cosa è successo?
Non mi trovavo proprio sul posto, ma a qualche isolato più in là. Era una giornata piovosa e ventosa. Stavo pranzando con una persona e parlavamo, quando all’improvviso abbiamo visto la strada riempirsi di poliziotti. Dai tavoli vicini ho cominciato a sentire parole come “granate”, “spari”, “morti”, “feriti”. Nel cielo è apparso un elicottero. Sul mio cellulare ho ricevuto alcuni messaggi di amici che cercavano di contattarmi per sapere se stavo bene. Volevo rassicurarli, ma la rete è caduta. Sono tornato nel mio ufficio e ho acceso il computer. Twitter dava le prime notizie. L’informazione si costruiva a fatica. Per strada la sirena di un’ambulanza si univa a quella delle campane della cattedrale e in questo rumore ho pensato al silenzio che presto sarebbe caduto sulle vittime e sulle loro famiglie. E allora ho chiuso Twitter e mi sono messo a pregare. Non potevo fare altro in quel momento: essere in comunione con quelli che stavano soffrendo.

Si è capito cosa ha spinto l’attentatore a compiere un gesto così folle?
No, purtroppo non abbiamo notizie in più rispetto a quelle apparse su tutti i giornali. È spesso la disperazione e il male di vivere a spingere a commettere gesti insensati e a fare del male attorno a sé. Sono cose già accadute e che purtroppo potranno succedere ancora.

Ci sono ragioni razziste dietro all’attentato, come fu per la strage di Oslo?
Non si ha l’impressione che ci siano ragioni razziste, tanto più che l’autore della strage è di origine araba e che le vittime sono di più religioni. Credo che sia il gesto di un disperato, di un folle.

Come comunità cristiana vi state chiedendo come rispondere a una tragedia simile?
Come cristiani dobbiamo accompagnare nella preghiera la sofferenza provocata da simili avvenimenti. Non abbiamo risposte da dare che altri non hanno. Credo però che la peggiore reazione sarebbe quella di lasciarsi prendere dalla paura, dall’emozione, dal temere gli eventi. Certo che c’è la paura, ma bisogna stringersi nella solidarietà.