Il compianto ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa già cinque anni fa si propose di rivedere il sistema della spesa pubblica italiana, sospettando – come tutti i suoi connazionali – che lo Stato spenda troppo e male. Un processo che fa tendenza qualificare in inglese (spending review) perché proprio nel Regno Unito è stato adottato seriamente nel decennio scorso, con un’attenta valutazione sia di quanto lo Stato spende, sia di come lo fa. Qui ci accontentiamo del quanto, e acceleriamo di molto i tempi per un’attenta valutazione, consci che il progetto di Padoa Schioppa fallì dopo poco più di un anno: il governo Prodi cadde, seguì l’esecutivo Berlusconi che cassò tutto in un amen. Salvo ricorrere, un paio d’anni più tardi, ai cosiddetti tagli lineari.
Ora il governo Monti è tornato sulla strada della spending review. Ha dato incarico al manager Enrico Bondi di spulciare le varie fonti di spesa senza perdercisi dentro più di tanto. Dopo pochi mesi Bondi – il risanatore di Parmalat – ha emesso il suo verdetto: sostanzialmente ha detto che una buona parte della spesa pubblica non ha alcun senso, quindi si può sforbiciare in lungo e in largo, con la possibilità di recuperare addirittura alcune decine di miliardi di euro in modo strutturale.
Ne servono circa 7 per evitare una misura fiscale che sarebbe la mazzata finale all’economia italiana: l’aumento dell’Iva dal 21 al 23%. E quindi Monti è partito lancia in resta. Anzitutto nel metodo: non ha contrattato i tagli con nessuno, ha comunicato ai sindacati che li farà. Punto. E saranno: revisione della spesa sanitaria per l’acquisto di beni e servizi (il cui costo scandalosamente varia – e di molto – da Ulss a Ulss); prolungato stop alle assunzioni nel pubblico impiego, con taglio di 10 mila posti in 4 mesi soprattutto tra le fila di dirigenti e consulenti; liofilizzazione di alcune voci retributive per i dipendenti pubblici (mensa, ferie, permessi); chiusura degli ospedali con meno di 120 posti letto (ben 216 strutture) e diminuzione di 30 mila posti letto negli ospedali più grandi; taglio dei piccoli tribunali e di alcune Province. E altro ancora.
Lo ripetiamo da tempo: tra il dire e il fare, soprattutto quando si toglie, in Italia c’è sempre di mezzo un oceano. E parliamoci chiaro: l’insieme di questi tagli dovrebbe mandare a spasso parecchi italiani, a fondo diverse piccole e medie aziende che lavorano con la pubblica amministrazione, tagliare i guadagni di molti collaboratori della stessa. Non sarà una passeggiata di salute.
Rimane la grande questione della pubblica amministrazione italiana. Che non è di per sé faraonica rispetto alle dimensioni del Paese, ma è a volte inutile, a volte superata, a volte inefficiente, troppo spesso sprecona. L’età media è alta, i livelli professionali in ribasso in quanto l’aggiornamento delle capacità è quasi sempre una chimera, l’informatizzazione ha reso obsolete figure lavorative e funzioni che non hanno più ragione di esistere se non, appunto, quella di esistere.
Qualcosa – forse anche molto – va fatto in questo senso, perché la fiscalità generale è già al massimo e il resto degli italiani non ha alcuna intenzione di pagare di più, per mantenere questa pubblica amministrazione. Quindi la spesa pubblica va revisionata perché i tempi degli sprechi incontrollati sono passati per sempre. Ma prima o poi qualcuno si dovrà pur decidere di far (ben) funzionare pure la macchina pubblica, per portarla verso standard europei e non più mediorientali.
Vedremo come si comporterà la politica, che sta già dando i suoi soliti pessimi segnali: manda avanti Monti a tagliare, ma dietro già mugugna, fa lobby, difende questo o quello, cerca di smussare se non di cassare. È proprio questo agire della politica italiana che sta vanificando, a una ad una, quasi tutte le riforme approntate dall’esecutivo, e che fa dire ai tedeschi: voi non cambiate mai.