Eppure non crolliamo. Cosa sta salvando l’Italia dal precipizio nel quale sono cadute per esempio Grecia e Spagna? Perché – nonostante una crisi molto più pesante di quanto i numeri e le statistiche ammettano – siamo in ginocchio, ma non ko?
L’economia è un complesso ingranaggio in cui tutte le rotelle devono ruotare nella stessa direzione. Se queste rallentano o, peggio, si fermano, si blocca tutto l’ingranaggio, con pessime conseguenze per tutti. Se manca il lavoro, mancano i soldi; se non ci sono questi, si fanno meno acquisti; se le merci non vengono vendute, le fabbriche non hanno ordini da evadere e fanno calare l’occupazione rendendo ancora più perversa la spirale negativa. Eppure l’Italia – che dentro i confini è nel pieno di quella spirale – sembra in qualche modo tenere, e la disoccupazione tocca livelli alti, ma non drammatici come per esempio in Spagna.
A salvarci sono soprattutto quelle centinaia di medie imprese che, se non riescono a vendere a Roma e Milano, s’ingegnano per vendere a Berlino o Tokyo. Vino e prosciutti, macchinari meccanici e piastrelle, vestiti e scarpe, componenti per auto e prodotti biomedicali: la creatività italiana non ha eguali nel mondo, associata a una mentalità imprenditoriale che – in certe zone d’Italia – si assimila con il latte materno.
La Brianza e la Pedemontana lombarda, il Veneto, l’Emila Romagna e le Marche, certi distretti industriali toscani e la cintura torinese… Il made in Italy non è un modo di dire, ma una realtà che sta aiutandoci a lavorare e a guadagnare in questo momento nero. E lo fa nelle peggiori condizioni: senza credito bancario (le banche italiane sono senza soldi da impiegare!); senza l’ausilio di servizi pubblici efficienti; senza l’appoggio efficace di uno Stato che accompagni queste imprese alla conquista del mondo; con un costo del lavoro oberato da una tassazione asfissiante e con un costo dell’energia che è il più alto dell’Occidente. L’elenco delle doglianze non finirebbe qui (vogliamo ricordare, per esempio, la bassa qualità dell’istruzione universitaria italiana? O una malavita endemica che colonizza intere Regioni?), e questo rende ancora più speciale i meriti di chi “ce la fa”. La crisi sta poi acuendo le intelligenze e le abilità, che qui non mancano da sempre. A ingegnarci, a sviluppare metodi per sbarcare il lunario non siamo secondi a nessuno. E tantissimi – a cominciare dalla cooperazione – stanno sacrificando il conto economico per non sacrificare gli stipendi.
Chi si loda s’imbroda? No. È semplicemente voglia di dire che, se solo iniziasse a soffiare un refolo di vento nelle nostre vele, la nave-Italia è capace di muoversi come un galeone nonostante sia solo una scialuppa dell’economia mondiale. Siamo in un momento decisivo, nel quale o ci rialziamo o decliniamo. O sapremo reagire e tornare nella serie A dell’economia mondiale (ci siamo, ma in zona retrocessione); o appunto…
Ma no, non dimentichiamo che cent’anni fa eravamo così poveri da inondare di emigrati le Americhe – la città più popolata di italiani non è Roma, ma San Paolo in Brasile – e mezza Europa. Che settant’anni fa non avevamo un Pil in regressione di due punti percentuali, ma un Paese raso al suolo dalla Sicilia al Po. C’è una generazione, ancora vivente, passata dalla fame (leggi: denutrizione) all’attuale benessere, dal Terzo al Primo mondo in pochi decenni. Abbiamo i muscoli per remare anche se il vento ci penalizza. Non culliamoci sugli allori, ma evitiamo anche di stramazzare sugli stessi. Spetta anzitutto a noi tornare a essere artefici della nostra fortuna. Come tante altre volte nel corso della nostra storia.