“Zandegù positivo al Barbera”. Quando gli fanno notare questo cartello esposto dai tifosi sulle ultime rampe del Bric Berton, poggio che si affaccia sul Mar Ligure, l’interessato non si scompone: «Si vede che mi conoscono anche qui…», commenta. Del resto non se l’era presa neppure quando, alla nascita del suo primogenito Manolo, la penna arguta di Gianni Mura aveva rilevato: «E’ una sintesi tra manubrio e Barolo…».
Intendiamoci: per Dino Zandegù il vino, oltre che una passione, è una professione. Fa il rappresentante dei prodotti dall’azienda vinicola di Francesco Moser e nel lavoro “si applica” con la competenza e la diligenza che il mondo del ciclismo – nel quale ha trascorso una vita da corridore e un’altra da direttore sportivo – unanimemente gli riconosce.
Quando non vende vini e non promuove l’immagine ludico-ricreativa di Bibione, Zandegù dirige la Carovana pubblicitaria del Giro d’Italia. D’accordo con Gianni Torriani, stabilisce orari di partenza (tendenzialmente all’alba…), tabelle di marcia, luoghi e durate delle soste, e detta disposizioni via radio lungo il percorso.
Più che un superiore, però, e’ un gradevolissimo compagno di viaggio, pronto ad allietare la comitiva e la gente che incontra con le sue canzoni. Ha una bella voce e un vasto repertorio di motivi popolari, che arricchisce con composizioni di sua creazione. Solo la Rai mostra di non gradire questa sua vocazione e fa di tutto per impedirgli di esprimerla durante il Processo alla tappa. Poco male: Zandegù intende creare un originale e alternativo Prosecco alla tappa.
Di cose da raccontare – in musica e in prosa – ne avrebbe tantissime. Dalla sua miniera di aneddoti può cavar fuori la storia di quel suo ex corridore particolarmente venale, che variava il proprio impegno in ragione dell’entità dei premi. Un giorno, per stimolarlo, gli fecero credere che a un certo traguardo volante erano in palio trenta milioni. «Partì come una scheggia – ricorda sogghignando -, con gli altri del gruppo a guardarlo come se fosse impazzito. In realtà il premio era di tre milioni…».
Si era dato una missione al Giro di quest’anno, Zandegù: quella di accasare (in senso matrimoniale) Roberto, lo speaker della Carovana, con una sua conoscente. Ma il predestinato ha resistito anche a tentativi di corruzione: «Guarda, se la sposi, ti regalo io l’abito da cerimonia, fatto su misura…».
Non si nasconde dietro un dito quando si tratta di dare giudizi scomodi sul ciclismo di oggi: «Certi corridori si staccano troppo facilmente, beccano mezz’ora anche quando si va piano e finiscono fuori tempo massimo: non è serio… La prima e unica volta in cui sono finito fuori tempo massimo – per pochi secondi, anche a causa di problemi alla sella, in una tappa in cui Fuente aveva dato quattro minuti a Merckx – ho capito di non essere più all’altezza e ho smesso di correre».
Ottimo velocista (ha vinto un Giro delle Fiandre e sei tappe al Giro d’Italia), in salita Zandegù penava, ma non demordeva: «Ricordo una tappa dolomitica con arrivo a Moena: 310 km, sette passi, un massacro. Avevo un ginocchio in disordine ed ero in ritardo. Vidi tra la folla un prete. Gli gridai: “Reverendo, se non mi spinge, bestemmio!”. Quello mi diede una spinta che a momenti vincevo il Gran premio della montagna…».
L’unico terreno sul quale il buon Dino non si sbilancia è quello dei dialetti. Si limita al vernacolo padovano che gli è naturale. «La prima volta che arrivai a Milano, quarant’anni fa – spiega -, andai a un’edicola e il proprietario mi chiese: “Cus’è ch’el voeur lü?” (“Cosa vuole?”). Presi un colpo e mi ripromisi di non provar neppure a parlare in milanese. Mi basta aver imparato un po’ d’italiano…».