In che modo viene usata la Rete per scambiare contenuti e per stare in relazione con gli altri? A questo interrogativo è dedicata la ricerca “quantitativa”, dal titolo “Identità digitali”, lanciata on line su www.testimonidigitali.it, il sito del convegno nazionale, svoltosi a Roma nello scorso aprile, per iniziativa dell’Ufficio per le comunicazioni sociali e del Servizio per il progetto culturale della Cei. Il nuovo studio si rivolge ai nati tra il 1986 e il 1992 (compresi) e segue di un anno l’analisi “qualitativa”, “Relazioni comunicative e affettive dei giovani nello scenario digitale”, i cui risultati – presentati al convegno di aprile – sono ora raccolti nel volume “Abitanti della Rete” (“Vita e Pensiero”, 2010). Alla curatrice delle due ricerche, Chiara Giaccardi, docente di sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano, abbiamo rivolto alcune domande.
Perché il titolo “Identità digitali”? E quali gli obiettivi della ricerca?
“Il titolo è legato alla consapevolezza, maturata anche grazie ai risultati della precedente ricerca, che il digitale è per i giovani un terreno di esperienza e relazione, e quindi un laboratorio in cui sperimentare, magari in forma meno impegnativa che nella relazione ‘faccia a faccia’, percorsi di costruzione della propria identità. Gli obiettivi dell’indagine quantitativa sono, da un lato, sostanziare numericamente i risultati della fase qualitativa; dall’altro, approfondire alcune dimensioni della vita off-line che sono parse rilevanti rispetto al modo di ‘abitare’ la Rete; e, infine, cominciare a esplorare alcuni ambiti importanti, come quello del credere, per tracciare un identikit dei nativi digitali anche sotto questo profilo”.
Quali le differenze tra le due ricerche?
“L’interesse delle due ricerche è comune: indagare il modo in cui i ‘nativi digitali’ abitano questo spazio per loro così importante e lo connettono agli altri spazi di esperienza concreta. La prima fase della ricerca era basata su un metodo qualitativo (interviste in profondità) che ha il pregio di consentire un accesso privilegiato ai vissuti e alle pratiche d’uso dei soggetti, ma lo svantaggio di potersi applicare a un campione numericamente ristretto. Il metodo quantitativo offre un diverso sguardo sullo stesso oggetto: nell’ottica di quelli che vengono definiti ‘mixed methods’, o ‘metodo della triangolazione’, questo ci consente di ottenere una rappresentazione più accurata della realtà indagata”.
Quali i principali processi di costruzione delle “identità digitali”?
“Le identità digitali sono profondamente relazionali: gli altri non sono solo ‘spettatori’ di ciò che scegliamo di pubblicare di noi, ma in un certo senso testimoni che concorrono alla definizione della nostra identità: oggi con la Rete è più che mai vero che ci ‘riceviamo’ dagli altri. All’introspezione, strumento privilegiato della ricerca di sé nell’era pre-digitale, si sostituisce un ‘giro lungo’ che passa per l’esteriorizzazione delle proprie tracce (il profilo, lo status, le appartenenze…) e la ricomposizione dei frammenti grazie a quanto gli ‘amici’ ci restituiscono di noi. In un certo senso i Social Network sono come dei grandi ‘diari’ condivisi con il gruppo dei pari”.
Perché la scelta di utilizzare lo strumento del questionario on line?
“Il questionario è uno strumento che consente di raccogliere e incrociare un numero molto elevato di dati. La scelta di proseguire nell’indagine sui nativi digitali con un questionario è legata, come si è detto, all’esigenza di ‘triangolazione’, oltre che di monitoraggio costante su una realtà in continuo divenire. Rendere disponibile on line il questionario significa poi andare incontro ai ragazzi su un terreno a loro familiare (certamente per loro è molto più agevole compilare un questionario on line che un cartaceo!) e sfruttare pienamente il potenziale della Rete, che diventa insieme il linguaggio, il luogo e l’oggetto dell’indagine”.
Che utilizzo può avere questa ricerca nel contesto della questione educativa in cui è impegnata la Chiesa italiana nel decennio in corso?
“Credo che nella Chiesa, ma più in generale nel mondo degli adulti e degli ‘immigrati digitali’, sia importante liberarsi definitivamente da alcuni pregiudizi che impediscono la reale comprensione del fenomeno e, quindi, anche la piena valorizzazione delle sue potenzialità: perché, come scriveva De Chardin, ‘niente è profano quaggiù per chi sa vedere’. Per esempio, occorre liberarsi dal timore che la Rete sia per i giovani un mondo alternativo e contrapposto a quello reale: ne è piuttosto, come si è detto, un’estensione, che comunque ha tendenzialmente il mondo reale come termine ultimo di riferimento. L’impegno educativo nei confronti di quello che anche negli ‘Orientamenti pastorali’ viene definito un ‘nuovo contesto esistenziale’ deve saper valorizzare il circolo virtuoso reale-virtuale-reale e utilizzare il momento dell’interazione smaterializzata (ma non per questo meno reale!) come una possibilità di avvicinare i lontani, di ascoltare chi può averne bisogno, di creare connessioni che possano poi diventare relazioni in senso autenticamente umano”. In che modo viene usata la Rete per scambiare contenuti e per stare in relazione con gli altri? A questo interrogativo è dedicata la ricerca “quantitativa”, dal titolo “Identità digitali”, lanciata on line su www.testimonidigitali.it, il sito del convegno nazionale, svoltosi a Roma nello scorso aprile, per iniziativa dell’Ufficio per le comunicazioni sociali e del Servizio per il progetto culturale della Cei. Il nuovo studio si rivolge ai nati tra il 1986 e il 1992 (compresi) e segue di un anno l’analisi “qualitativa”, “Relazioni comunicative e affettive dei giovani nello scenario digitale”, i cui risultati – presentati al convegno di aprile – sono ora raccolti nel volume “Abitanti della Rete” (“Vita e Pensiero”, 2010). Alla curatrice delle due ricerche, Chiara Giaccardi, docente di sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano, abbiamo rivolto alcune domande.Perché il titolo “Identità digitali”? E quali gli obiettivi della ricerca?“Il titolo è legato alla consapevolezza, maturata anche grazie ai risultati della precedente ricerca, che il digitale è per i giovani un terreno di esperienza e relazione, e quindi un laboratorio in cui sperimentare, magari in forma meno impegnativa che nella relazione ‘faccia a faccia’, percorsi di costruzione della propria identità. Gli obiettivi dell’indagine quantitativa sono, da un lato, sostanziare numericamente i risultati della fase qualitativa; dall’altro, approfondire alcune dimensioni della vita off-line che sono parse rilevanti rispetto al modo di ‘abitare’ la Rete; e, infine, cominciare a esplorare alcuni ambiti importanti, come quello del credere, per tracciare un identikit dei nativi digitali anche sotto questo profilo”.Quali le differenze tra le due ricerche?“L’interesse delle due ricerche è comune: indagare il modo in cui i ‘nativi digitali’ abitano questo spazio per loro così importante e lo connettono agli altri spazi di esperienza concreta. La prima fase della ricerca era basata su un metodo qualitativo (interviste in profondità) che ha il pregio di consentire un accesso privilegiato ai vissuti e alle pratiche d’uso dei soggetti, ma lo svantaggio di potersi applicare a un campione numericamente ristretto. Il metodo quantitativo offre un diverso sguardo sullo stesso oggetto: nell’ottica di quelli che vengono definiti ‘mixed methods’, o ‘metodo della triangolazione’, questo ci consente di ottenere una rappresentazione più accurata della realtà indagata”.Quali i principali processi di costruzione delle “identità digitali”?“Le identità digitali sono profondamente relazionali: gli altri non sono solo ‘spettatori’ di ciò che scegliamo di pubblicare di noi, ma in un certo senso testimoni che concorrono alla definizione della nostra identità: oggi con la Rete è più che mai vero che ci ‘riceviamo’ dagli altri. All’introspezione, strumento privilegiato della ricerca di sé nell’era pre-digitale, si sostituisce un ‘giro lungo’ che passa per l’esteriorizzazione delle proprie tracce (il profilo, lo status, le appartenenze…) e la ricomposizione dei frammenti grazie a quanto gli ‘amici’ ci restituiscono di noi. In un certo senso i Social Network sono come dei grandi ‘diari’ condivisi con il gruppo dei pari”.Perché la scelta di utilizzare lo strumento del questionario on line?“Il questionario è uno strumento che consente di raccogliere e incrociare un numero molto elevato di dati. La scelta di proseguire nell’indagine sui nativi digitali con un questionario è legata, come si è detto, all’esigenza di ‘triangolazione’, oltre che di monitoraggio costante su una realtà in continuo divenire. Rendere disponibile on line il questionario significa poi andare incontro ai ragazzi su un terreno a loro familiare (certamente per loro è molto più agevole compilare un questionario on line che un cartaceo!) e sfruttare pienamente il potenziale della Rete, che diventa insieme il linguaggio, il luogo e l’oggetto dell’indagine”.Che utilizzo può avere questa ricerca nel contesto della questione educativa in cui è impegnata la Chiesa italiana nel decennio in corso?“Credo che nella Chiesa, ma più in generale nel mondo degli adulti e degli ‘immigrati digitali’, sia importante liberarsi definitivamente da alcuni pregiudizi che impediscono la reale comprensione del fenomeno e, quindi, anche la piena valorizzazione delle sue potenzialità: perché, come scriveva De Chardin, ‘niente è profano quaggiù per chi sa vedere’. Per esempio, occorre liberarsi dal timore che la Rete sia per i giovani un mondo alternativo e contrapposto a quello reale: ne è piuttosto, come si è detto, un’estensione, che comunque ha tendenzialmente il mondo reale come termine ultimo di riferimento. L’impegno educativo nei confronti di quello che anche negli ‘Orientamenti pastorali’ viene definito un ‘nuovo contesto esistenziale’ deve saper valorizzare il circolo virtuoso reale-virtuale-reale e utilizzare il momento dell’interazione smaterializzata (ma non per questo meno reale!) come una possibilità di avvicinare i lontani, di ascoltare chi può averne bisogno, di creare connessioni che possano poi diventare relazioni in senso autenticamente umano”.