C’è un’interessante serie di “segni” nell’appuntamento di quest’anno in occasione della ricorrenza di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, lui stesso vescovo-comunicatore nella Ginevra calvinista, scrittore e predicatore orientato a sanare le fratture religiose e politiche in un tempo (il XVI secolo) difficile per l’Europa cristiana. E segno è innanzitutto l’insistenza con cui nel manifesto dell’incontro si fa riferimento al “dialogo”, che – quando è bene inteso – rappresenta un metodo prezioso e fruttuoso nelle relazioni interpersonali e sociali.
L’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, dunque, sabato 28 gennaio dialogherà con il direttore de Il Sole 24 Ore Roberto Napoletano e con i giornalisti presenti, sul tema – ecco ancora quel termine – “Dialogo sul giornalismo e la comunicazione”. Ciò vuol dire davvero mettersi in gioco fino in fondo, e non limitarsi a esprimere pareri tecnici o di marketing, o dedicarsi a lamentele e prediche su ciò che non va o sul “da farsi”. Il fatto poi che l’evento si svolga all’Istituto dei ciechi di via Vivaio, aggiunge un ulteriore “segno” forte allo sforzo a cui tutti i presenti saranno chiamati. Perché tutti – individui o istituzioni, operatori e fruitori – siamo a rischio di cecità nei confronti della verità, della onestà e del rispetto.
Ma non basta, perché proprio mentre si svolgerà l’incontro di Milano, a Caserta sarà in corso il XVIII Congresso nazionale dell’Ucsi (Unione cattolica stampa italiana), l’associazione dei giornalisti cattolici che quest’anno punta l’attenzione su un tema cruciale: “La credibilità dell’informazione in Italia: verso un giornalismo di servizio pubblico”. Anche da qui arriveranno segnali grandi di consapevolezza e di responsabilità. L’informazione nel nostro Paese, infatti, si sta giocando in questi anni la residua credibilità e l’Ucsi prova a lanciare una parola d’ordine che coglie appieno il cuore del discorso: tutto il giornalismo, e non solo quello targato Rai, deve acquistare coscienza di essere “servizio pubblico”.
Credibilità, si diceva. Può darsi che il giornalismo italiano sconti una eredità di parzialità e approssimazione che spesso quello esercitato in altri Paesi europei o nordamericani non ha. Ma attenzione, non è sempre così. Perché a parte la circostanza che esiste (e prospera) un giornalismo scandalistico in Inghilterra e Germania, così come esiste quello gretto di tanta parte della Francia, o quello autoreferenziale della vasta provincia statunitense, non è vero che, almeno sui maggiori quotidiani della Penisola o su alcune reti televisive (magari con grande fatica), non si facciano inchieste o approfondimenti di qualità. Anzi. Non c’è solo la caccia al “mostro di Avetrana”, ci sono anche i reportage sui vari scandali, su corruttori e corrotti, sui costi della politica, sugli amici degli amici, sulle scalate misteriose e le cordate criminose, le cosche che si insediano in territori insospettati, le ordinarie evasioni fiscali…
È piuttosto vero che mancano due elementi che – come Ucsi Lombardia – abbiamo già segnalato altre volte. Il primo è la scarsa educazione del pubblico a ragionare, distinguere e giudicare. Non ha ancora sufficiente diffusione un pur augurabile movimento di utenti che reagisca di fronte a veri eccessi dei media, come casi di razzismo o di mancato rispetto della dignità della persona. Il secondo riguarda invece un’altra parte che è pesantemente coinvolta nella “fattura” dei giornali e dei format televisivi. E sono gli editori. Cosa ne pensano di demolire l’idolo del successo a ogni costo (copie e/o share) e badare di più alla qualità dell’informazione? La tendenza in altri Paesi è di una ripresa cospicua di vendite da parte di giornali che hanno investito in informazione rigorosa e di alta qualità. Ma che credibilità hanno gli editori che hanno tenuto bloccato per oltre quattro anni il contratto giornalistico e che preferiscono pagare i freelance con compensi inferiori a quelli di una colf?
Credibilità, dunque, che coinvolga tutti gli attori (giornalisti-editori-utenti) e dopo i mea culpa e le strigliate ben vengano gli strumenti di formazione tecnica e deontologica, magari permanente, che consentano davvero un salto di qualità verso la realizzazione di un sistema di informazione e comunicazione realmente “servizio pubblico”, a servizio cioé dell’intera comunità nazionale, e oltre.