Qual è il volto di un eroe? Don Enrico Bigatti aveva lo sguardo timido, dietro alle lenti spesse da studioso abituato a stare sui libri; la figura lunga, un po’ allampanata, con il sorriso imbarazzato di chi non si sente mai a proprio agio di fronte alla macchina fotografica… Eppure questo sacerdote, come molti altri suoi confratelli della diocesi ambrosiana, eroe lo è stato davvero, nella tempesta della seconda guerra mondiale, fino a essere insignito della medaglia d’oro alla memoria – morì nel 1960 in un incidente d’auto – per l’attività svolta con coraggio nel mettere in salvo ebrei e quanti erano ricercati dai nazifascisti.
Bigatti era nato nel 1910 a Crescenzago, nella periferia a nord-est di Milano, in una famiglia di umili condizioni, rimanendo orfano di padre quando era ancora in fasce. Tuttavia si riuscì a farlo studiare, avendo dimostrato fin da piccolo un’intelligenza vivace e prontezza nell’apprendere. Entrato in seminario, fu ordinato sacerdote nel 1937, conseguendo poi la licenza in teologia e l’abilitazione all’insegnamento, che mise in pratica in una scuola piuttosto particolare: l’istituto San Vincenzo che accoglieva i bambini “anormali”, come si diceva all’epoca. Una scelta che dice molto della personalità di don Enrico, la cui vita fu sempre improntata alla carità verso il prossimo, cioè al dono di sé nel nome di Cristo e della Beatissima Maria, alla quale era profondamente devoto.
Liturgista competente e raffinato, Bigatti fu subito coinvolto nella redazione del nuovo messalino ambrosiano. Ma le sue conoscenze e i suoi interessi erano vasti e molteplici, spaziando dalle lingue antiche a quelle moderne, dalla letteratura alla matematica; versato soprattutto in fisica, tanto da essere in contatto epistolare con scienziati del calibro di Louis de Broglie e Albert Einstein.
Nel 1941 don Enrico fu destinato come coadiutore nella sua parrocchia d’origine, a Crescenzago. Proprio qui, dopo la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre 1943, il giovane vicario si ritrovò ad accogliere un certo numero di soldati alleati fuggiti dalla prigionia, ma anche militari italiani scampati alla cattura da parte dei tedeschi. Che fare di queste persone? Nasconderle non bastava, occorreva farle fuggire e metterle in salvo. Ma come? Fu a questo punto che Bigatti dimostrò tutto il suo ingegno e di essere persona d’azione, oltre che di pensiero.
Don Enrico si rivolse subito a due suoi amici confratelli, che all’epoca insegnavano nel collegio San Carlo a Milano: don Andrea Ghetti e don Aurelio Giussani (dei quali abbiamo parlato su queste pagine, sempre in occasione del Giorno della Memoria). Insieme i tre sacerdoti misero in piedi una struttura di salvataggio chiamata <Oscar> (Organizzazione soccorso collocamento antifascisti ricercati), che mirava a far espatriare in Svizzera i profughi e che prendeva le mosse dall’esperienza degli scout, riuscendo a coinvolgere un certo di numero di laici e di religiosi (a Varese, ad esempio, fondamentale fu il contributo di don Natale Motta).
L’oratorio di Crescenzago diventò così una sorta di centro di raccolta per sbandati e fuggitivi, dove in gran segreto venivano realizzati anche documenti e certificati falsi. Don Bigatti stesso accompagnò personalmente molti perseguitati verso la salvezza, a volte indossando la sua talare, altre volte in abiti borghesi, altre volte ancora travestendosi da vigile del fuoco e persino da miliziano fascista. Ma non si trattava di un gioco: ogni “viaggio” comportava rischi altissimi e diversi membri dell’Oscar furono catturati, torturati e deportati nei lager tedeschi; alcuni caddero anche uccisi durante le missioni.
I delatori poi, per odio o per interesse, erano sempre in agguato. Anche don Enrico Bigatti, infatti, il 15 gennaio 1944 venne arrestato dalle SS e tradotto nel carcere milanese di San Vittore. Nonostante gli interrogatori serrati, forse grazie all’intervento del cardinal Schuster (che era informato di tutto ciò che questi suoi preti “ribelli” facevano), il coadiutore di Crescenzago dopo un mese di prigionia venne liberato e, per nulla intimorito, riprese così il suo ruolo nella Resistenza, fungendo fino alla Liberazione da collegamento e cappellano per i gruppi partigiani della zona. Memorabile fu il suo intervento – «armato solo di un’Ave Maria», come ricordò lui stesso – il 25 aprile 1945, quando si frappose fra gli insorti e una colonna blindata tedesca ottenendo la resa di quest’ultima, evitando così ulteriore spargimento di sangue.
Alla fine della guerra, il Comitato di liberazione nazionale chiese a don Enrico Bigatti un elenco di coloro che erano stati salvati grazie al suo impegno. Il prete, che pur aveva annotato tutto scrupolosamente, rispose con modestia che non aveva importanza: «Per me l’uomo è persona sacra: quello che abbiamo fatto, l’abbiamo fatto per Dio».