La riforma del regime delle pensioni, varata lo scorso anno a tamburo battente (il decreto legge numero 201 del 6 dicembre 2011 fu convertito definitivamente nella legge 214 il giorno 22 dello stesso mese), ha innalzato di non poco i requisiti per avere accesso alla pensione, mettendo così un argine ad una delle più importanti voci della spesa pubblica.
La riforma non solo ha innalzato a 66 anni l’età anagrafica di accesso alla pensione di vecchiaia (e in prospettiva a 67, in maniera indifferenziata per uomini e donne), ma ha altresì dettato un regime particolarmente rigoroso per la pensione un tempo definita “di anzianità”. Ed infatti, mentre prima era possibile lasciare il lavoro anche con soli 36 anni di contribuzione (purché si potesse vantare una età anagrafica di almeno 61 anni), adesso sono necessari 42 anni (e tre mesi) di contributi ed una età, tendenzialmente, non inferiore a 62 anni per poter accedere al pensionamento in via anticipata.
La novità è grande, perché riguarda un numero assai ampio di lavoratori, oramai non più giovani, costringendoli a posticipare l’uscita dal mondo del lavoro e a rivedere i propri progetti di vita a breve. Di per sé, ovviamente, la cosa non è illogica, atteso l’enorme allungamento della vita media degli italiani (l’aspettativa media di vita è di 79 anni circa per gli uomini e di quasi 85 per le donne), che, per un verso, rende del tutto tollerabile l’attività lavorativa ben oltre i sessanta anni e che, per un altro, impone all’Inps di pagare assegni di pensione per lunghissimi anni.
Tuttavia, la riforma è venuta a colpire molti soggetti che, confidando nelle più generose condizioni del passato, si erano oramai ritirati dal lavoro effettivo (o erano stati di fatto licenziati), nell’attesa di poter accedere al pensionamento. Per costoro, il posticipo del momento del pensionamento appare assai critico poiché spalanca un futuro nel quale si è ancora costretti a svolgere una attività, ma si è rifiutati dalle imprese, che nel nostro Paese sono poco disposte ad assumere i lavoratori considerati oramai anziani (ma molti degli “esodati” hanno, in verità, poco più di 57 anni).
Il problema, dunque, non è di facile soluzione e tuttavia esso non può passare – come si reclama a gran voce – per la sola strada di un accollo a carico della collettività delle spese relative al pensionamento anticipato di costoro. Per alcuni, già la legge del 2011 (o un successivo intervento del febbraio 2012) ha assicurato in via transitoria l’applicazione del regime più antico (sono i cosiddetti “salvaguardati”), ma garantire a tutta la platea degli interessati la stessa soluzione appare dispendioso, soprattutto a fronte dei sacrifici che vengono richiesti ai lavoratori più giovani.
Il sindacato ha insistito molto nel difendere gli “esodati”, ritenendo che in qualche modo lo Stato avesse fatto nei confronti di essi una sorta di promessa: in verità, le difficoltà del sistema pensionistico erano ben note e non si può certo dire che la riforma del 2011 abbia colto tutti di sorpresa. Ciò che particolarmente preoccupa, e che fa valutare con più di una perplessità la difesa “a spada tratta” che fanno le organizzazioni sindacali, è la concreta possibilità che hanno, oramai da molti anni, i pensionati di poter cumulare, dopo il pensionamento, sia l’assegno loro corrisposto dall’Inps sia un nuovo reddito da lavoro (autonomo o anche subordinato).
A differenza che nel passato, dunque, quando i prepensionamenti, gravavano sulle casse pubbliche, ma servivano almeno a lasciare liberi per i giovani tanti posti di lavoro, il rischio è che la difesa degli “esodati” finisca solo per mantenere posizioni di privilegio, legate all’età, senza intervenire a sostegno della disoccupazione giovanile, che, con i suoi numeri, rappresenta oramai una vera emergenza nazionale.