A distanza di qualche settimana dall’entrata in vigore della riforma del lavoro proposta dal Ministro Fornero (legge n. 92 del 28 giugno 2012, pubblicata sul s. o. 136 alla Gazzetta Ufficiale n. 153 del 3 luglio 2012 ed entrata in vigore il successivo 18 luglio 2012), si può forse provare a tracciare un primo bilancio delle importanti novità che sono state introdotte, in particolare con riguardo alla disciplina del licenziamento, che rappresenta senz’altro il punto di maggiore rilievo di tutto l’intervento normativo del Parlamento.
L’art. 1, co. 42 e segg. della riforma, procede infatti a una profonda riscrittura del celebre art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che reca la previsione della reintegra del lavoratore nei casi di licenziamento illegittimo, per le imprese che occupino stabilmente più di quindici dipendenti.
La riforma, pur senza abbandonare il rimedio originario, ne limita ora l’applicazione solo alle ipotesi di maggiore gravità, prevedendo invece per gli altri casi un regime risarcitorio, con il pagamento di una indennità di importo variabile, quando per esempio il fatto contestato sussista, ma vi sia stata da parte dell’imprenditore una violazione della procedura disciplinare precedente l’irrogazione del provvedimento interruttivo del rapporto di lavoro.
La norma, pur nel volenteroso tentativo di ridimensionare una tutela che in passato aveva dato luogo a decisioni non facilmente condivisibili, pecca di imperizia e di approssimazione, dato che non riesce a distinguere con la necessaria precisione le varie ipotesi che essa pretende di regolare, offrendo così ampi spazi a una interpretazione giurisprudenziale in senso correttivo, con esiti ovviamente imprevedibili.
A fronte delle notevoli tensioni sociali che ha destato l’approvazione della norma, c’è da chiedersi, quindi, se davvero l’operazione realizzata dal Ministro porta con sé il saldo positivo atteso, posto che si è abbandonato un sistema assai rigido, ma che aveva saputo trovare degli aggiustamenti di buon senso nella lunga fase di applicazione seguita all’ultima riforma del 1990, per sperimentare una norma in relazione alla quale è facile prevedere, invece, un lungo e tormentato iter applicativo, prima che si possa giungere a una fase di stabilizzazione.
Meglio sarebbe stato, forse, intervenire allora anche in maniera meno radicale, ma attraverso previsioni più nette, capaci di indicare con chiarezza già ai “pratici” quali possano essere i rischi conseguenti alla mancata conferma del licenziamento in sede giudiziale (per esempio attraverso una ridefinizione delle soglie dimensionali di applicazione della tutela “forte” o mediante l’individuazione di un importo massimo di risarcimento per i casi nei quali l’ordine di reintegra giunga a grande distanza temporale dal licenziamento), così da garantire un effetto immediato sulla prassi operativa quotidiana e, quindi, sulle decisioni imprenditoriali.