a cura di Stefano LAMPERTICO
Quando Papa Francesco nominò Mario Delpini alla guida della diocesi più grande del mondo come successore di Ambrogio, la sorpresa fu grande. Ironia e umiltà, scrissero i giornali dopo aver ascoltato le sue prime parole da Arcivescovo di Milano. In questa lunga intervista affrontiamo con Delpini i temi che più stanno a cuore al nostro giornale. Scarp ha il suo cuore nella chiesa ambrosiana, in questa città, Milano, segnata in questi anni da tante situazioni difficili. Le parole di conforto dell’Arcivescovo, rivolte a coloro che sono nel bisogno, non sono mai mancate. Soprattutto in questo tempo di pandemia, un tempo quasi sospeso, nel quale le relazioni e la fraternità sono messe a dura prova.
Vescovo Mario, il suo Discorso alla città, pronunciato un anno fa in occasione della solennità di Sant’Ambrogio si intitolava Benvenuto futuro!. In quella occasione lei esordì chiedendosi: “C’è una parola che mi sembra più necessaria di altre in questa città così attiva, così intraprendente, così aperta all’Europa, al mondo”. Si riferiva al futuro, appunto. Poi è arrivato il 2020: un anno terribile. Città spente, silenziose, persone chiuse nelle case, saracinesche abbassate, confini sigillati, per non parlare dei malati e dei morti. Il futuro ci ha tradito?
Vorrei usare l’immagine della traversata nel deserto, il cammino verso la terra promessa. Il futuro è la condizione per portare a compimento la propria vocazione, quindi è il tempo che abbiamo a disposizione per raggiungere questo obiettivo e la nostra vocazione, come dice Papa Francesco, è quella di vivere da fratelli. È il tempo in cui possiamo costruire rapporti di fraternità, sia nei giorni facili sia in quelli tribolati. Anche quello che stiamo vivendo è il tempo per la vocazione; le condizioni cambiano, ma la vocazione resta.
Stiamo vivendo un tempo sospeso. Ci sentiamo tutti più fragili, abbiamo tutti più paura. Qual è la sua più grande preoccupazione in questo tempo? E quale la sua paura?
Riprendo di nuovo l’immagine della traversata nel deserto. Se si perde la direzione e la fiducia nella chiamata verso la terra promessa si muore di sete. La mia preoccupazione è che non si sappia più riconoscere il significato della vita; che non si ascolti più la voce di Colui che chiama e perciò non si sa più dove andare, forse per questo lo definiamo un tempo sospeso. La mia paura è che in questo vivere senza il desiderio di una terra promessa prevalga l’individualismo. Ciascuno cerca di badare a se stesso, di sopravvivere, mentre la nostra vocazione è di vivere nella fraternità che possiamo e dobbiamo realizzare e che ora è più necessaria che mai.
Ma non ritiene che la fraternità, proprio in questo tempo particolare, sia preclusa?
Non siamo proprio così isolati. È il momento in cui le famiglie sono chiamate ad essere più compatte, i vicini di casa sono chiamati ad essere più attenti gli uni agli altri, il servizio ai poveri richiede maggior dedizione, l’attività scolastica e quella lavorativa, dove non interrotte, richiedono un impegno ancora maggiore. L’individualismo non è mai una salvezza. Al contrario, viviamo un tempo in cui le relazioni devono essere certamente più caute, ma se penso a coloro che sono in ospedale e lavorano per gli ammalati, agli insegnanti che lavorano da remoto e in presenza, se penso a chi ha il compito di far funzionare il Paese, credo proprio che non si possa dire che la fraternità sia preclusa.
Il Natale è la notte, la sorgente della speranza. Vorrei soffermarmi con Lei su questa virtù. Come leggere, in tempo di pandemia, la speranza?
La speranza per i cristiani è un sentimento ben preciso, invece mi sembra che ci siano alcune figure pericolose di speranza. Una figura di speranza pericolosa è quella dei presuntuosi che dicono “io posso costruire il mio futuro”, quindi farla da padroni nel cammino verso la speranza. Un’altra forma pericolosa è quella dei programmatori, coloro che fanno calcoli per vedere cosa ne verrà. Oppure c’è l’assenza della speranza di quelli che possiamo chiamare i gaudenti, coloro che non pensano al futuro o agli altri, ma che dicono “finché si può godiamocela”. Invece i cristiani devono intendere la speranza come la risposta alla promessa di Dio. Se non c’è ascolto della promessa di Dio non vi è neppure speranza. E quindi ci sono la presunzione, il calcolo e il divertimento. La speranza non è un ottimismo fondato sulle previsioni, non è un’aspettativa ingenua che le cose andranno meglio. È fidarsi della promessa di Dio e mettersi in cammino come popolo.
Sarà un Natale tanto diverso da quello che eravamo abituati a celebrare e festeggiare, soprattutto per i bambini. Che Natale sarà allora? E come possiamo viverlo senza perdere il suo significato più profondo?
Vi sono degli adulti che continuano a pensare che il Natale sia una favola per i bambini, ma i bambini non credono alle favole, le usano soltanto per il loro pensiero, più immaginifico che razionale. Altri ancora si ostinano a pensarlo come il tempo del consumo, il Natale dei mercanti. Per i cristiani, e quest’anno più che mai, ha un significato preciso: è la contemplazione del figlio di Dio che si è fatto figlio dell’uomo per rivelare a quale dignità è chiamata la stessa umanità. Ad avere stima di sé, ad avere l’idea di una vita come vocazione, ad essere figlio di Dio, ad avere un senso di fiducia, perché Dio è venuto non per condannare il mondo ma per salvarlo. L’incarnazione del figlio di Dio non è raccontata nei Vangeli come una favola, ma come una rivelazione. Quindi credo che quello che può rendere significativo il Natale di quest’anno sia proprio il senso del messaggio cristiano.
Parliamo dei più poveri, degli invisibili, di coloro – assetati, affamati, carcerati – che sono il cuore delle storie di Scarp de’ tenis. L’emergenza sanitaria torna a farsi emergenza sociale. Chi a suo avviso è oggi più bisognoso delle nostre opere di carità?
È la donna o l’uomo che ognuno di noi incontra nel bisogno. Non mi sentirei di fare una classifica per catalogare bisogni e bisognosi. Forse la devono fare i politici e gli studiosi. Per noi credo esistano solo le persone. Il più bisognoso è la persona che muore sotto i nostri occhi. La parabola del buon Samaritano ci insegna che non va fatto un elenco dei più bisognosi, ma che non dobbiamo essere indifferenti ai bisogni che sono sotto i nostri occhi. E se una persona ha fame, sfamala. Se ha sete dalle da bere.
Ancora sugli ultimi della fila. Il grande impegno messo in campo dalla Chiesa, dalle Caritas, dai sacerdoti pare non sia sufficiente a fronteggiare la grande crisi che queste persone hanno vissuto e stanno vivendo in questi mesi. Quali risposte deve dare loro la politica?
Se posso esprimere un pensiero su un tema tanto complesso, direi che la politica deve servire il bene comune, deve evitare cioè che esistano gli ultimi della fila. La politica deve creare quel sistema di relazioni e servizi affinché tutti siano nella condizione di poter esercitare i propri diritti e rispettare i propri doveri. E quindi si tratta di creare una tessitura di relazioni che favoriscano le condizioni dove ciascuno ha ciò di cui ha bisogno, e dà quello di cui è in dovere di dare. La politica non può ammettere che esistano gli ultimi della fila. Deve trovare il modo affinché tutti siano cittadini con pari dignità e chiedendo il contributo di ognuno di noi per la costruzione del bene comune. Diritti e doveri che valgono per tutti coloro che vivono nel nostro Paese. Esistono le persone, ognuno con il proprio contributo e ciascuno ha il diritto di esigere il rispetto della sua dignità e delle sue condizioni di vita.
I vecchi, esposti alla morte in solitudine. I più piccoli, esposti allo stravolgimento di relazioni vitali per crescere. Ci sono gruppi sociali e demografici che la pandemia minaccia con particolare accanimento. Come vede il futuro nelle nostre comunità, in merito al rapporto tra generazioni, quando la tempesta sarà passata?
Lo vedo come la logica del villaggio, dove ogni generazione ha il suo contributo da dare e tutti hanno qualcosa da ricevere. Questa pandemia, con le regole poste per limitare il contagio dei più deboli, ha penalizzato fortemente gli anziani, anche se l’intenzione era quella di proteggerli e custodirli.
Parliamo di lavoro. E degli anticorpi della solidarietà. Il rapporto sulla povertà di Caritas Italiana e la ricerca presentata pochi giorni fa da Caritas Ambrosiana restituiscono la fotografia dei gravi effetti economici e sociali dovuti alla pandemia che colpiscono soprattutto le donne e la fascia tra i 35 e i 54 anni. È la crisi del lavoro che si riflette sulla vita delle famiglie.
La mia riflessione è che non ho come modello l’alveare dove tutti sono pienamente occupati fino allo stremo per produrre il miele che poi qualcuno vende a proprio vantaggio. Sono convinto che il motore della ripartenza saranno le famiglie. Sono loro che avranno le motivazioni e saranno il motore di questa ripartenza, come peraltro lo sono state nei momenti più difficili. Anche per questo motivo ritengo che la politica debba sostenere e consolidare le famiglie. Certo non ho una ricetta. Ma sono certo che se invece del capitalismo, che ha come scopo prioritario e indiscutibile il profitto, si realizzano delle forme di mutualità, di cooperativismo, forse si raggiungerebbero forme di lavoro più dignitose. Certamente ciò non assicurerà i profitti che il capitalismo ha garantito a molti facendoli diventare più ricchi, ma favorirà l’occupazione, condizioni diverse di lavoro e di riposo, insomma un tipo di impostazione del lavoro più finalizzato al benessere complessivo della persona e della società, che agli indici del rendimento delle azioni o del capitale investito. Sono passi che dovremmo compiere. E la nostra società lombarda ha una particolare abilità nel promuovere forme di lavoro cooperativo, di mutualità, al fine di ottenere risultati e non soltanto per far guadagnare gli investitori.
Si tratta di pensare a un differente rapporto tra etica e finanza?
Certamente. Ho sollecitato studi e riflessioni in università proprio perché la dottrina economica, che è materia nella quale non posso addentrarmi, deve dare una grammatica per dimostrare che sia sostenibile. Una dottrina economica che si ispiri al bene della persona e della società, a un concetto di equità che è dentro i princìpi della dottrina sociale della chiesa. Ma i princìpi non costruiscono nessuna società, nessun sistema produttivo, bisogna passare dai princìpi a delle procedure e pratiche, a esperienze operative.
È una riflessione importante, anche alla luce di quanto è emerso in questi mesi. I lavori più penalizzati in questo tempo sono stati quelli più umili, svolti dalle persone più fragili. Quel sottobosco di lavoratori in nero come badanti, lavapiatti, riders…
Il sistema del lavoro ha bisogno di modelli che funzionino, che consentano un livello di vita dignitoso ma anche la sopravvivenza dell’azienda e la prestazione dei servizi. Quindi un sistema complesso, peraltro in tante parti del Paese già attivo, che permetta di valorizzare le passate esperienze oltre a quelle che dobbiamo ancora inventare.
Riusciremo a ripartire? Quali cicatrici riusciremo a rimarginare? Quali resteranno?
Non so quali cicatrici ci rimarranno, le uniche cicatrici che non guariscono sono quelle prodotte dalla pervicacia di chi vede nel bisogno altrui un’occasione per guadagnarci. Questo è difficile da guarire. Come hanno fatto i Paesi europei quando hanno visto nel bisogno dei Paesi africani l’occasione per portasi via tutto quello che avevano di prezioso, così è anche per le persone, lo sbaglio si può perdonare, la ferita causata da una disattenzione, da una situazione estrema si può rimarginare. È la cattiveria che non permette di guarire le ferite. Se invece c’è un senso di umanità credo che tutte le ferite si possano rimarginare e forse possono anche diventare una specie di percorso sapienziale, che insegna come andando in certe strade ci si può far male ma si può anche tornare indietro e prendere la strada giusta. Le ferite guaribili sono queste.
Eccellenza, in conclusione, quali sono le storie che l’hanno più colpita e toccata in questo tempo?
Quello che mi ha più impressionato è il dolore e lo strazio di chi non ha potuto seppellire i propri morti. Nella visione che i cristiani hanno della resurrezione, anche questa è una consolazione. C’è un umanesimo che è rimasto straziato dal fatto di aver perso persone care senza poter avere per loro un gesto di tenerezza e di preghiera. Questo vuol dire che il cuore umano soffre. Alcuni ne soffriranno per aver perso un po’ di soldi, un po’ di tempo, un po’ di cultura, e sono tutti legittimi motivi di sofferenza, ma quello che a me ha colpito è come ancora rimane profondo il dolore per queste separazioni vissute senza tenerezza e senza preghiera.
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