«Telefonava spesso, anche tre o quattro volte al giorno, ogni tanto di notte perché, mi era chiaro, cercava soprattutto qualcuno con cui parlare». Il ricordo di don Giuseppe Vegezzi, parroco di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, è chiaro nella memoria, specie ora che Alda, la poetessa dei Navigli, se n’è andata, lasciando per sempre quell’appartamento che è proprio di fronte alla sua casa. E infatti lui indica i foglietti scritti a mano che i milanesi, ma non solo, continuano ad appendere al portone dell’abitazione da cui tante volte la Merini usciva per passeggiare nella sua amatissima zona.
«Di episodi anche curiosi ne avrei tanti da raccontare», continua don Vegezzi, ma senza dubbio, quello delle sue telefonate, è il più scolpito nella mia mente: conversazioni senza volto in cui esprimeva se stessa, si sfogava, nel modo suo tipico, vivace, anche nel linguaggio. Qualche volta quando ero assente, nella segreteria telefonica trovavo più che altro insulti, ma anche questo faceva parte del suo personaggio e sapeva che, comunque, il prete era qui e poteva essere ascoltata».
E davvero chi la conosceva bene, sa che si sentiva sola, mater dolorosa e custode della sua stessa sofferenza e di quella del mondo. Che guardava con gli occhi luminosi e trafiggenti del poeta, o meglio, della poetessa che univa all’ispirazione letteraria, l’essere donna, con quella particolarissima vena di sentimento nella quale più di uno voleva vedere solo la follia.
Il tema più difficile: il manicomio. Anche su questo don Giuseppe, con un sorriso appena accennato, richiama dialoghi con «l’Alda» non lontani nel tempo: «Gli piaceva andare indietro, al periodo dell’internamento, spiegandomi: “Pensavano che fossi pazza”. Io non rispondevo mai, perché avevo capito che se ne parlava lei era una scelta precisa, se lo facevano altri, un dolore». Quello lenito dall’avvicinarsi della Merini alla fede, a un «mistero che tento di intuire e che continuo a cercare», come disse in Duomo la sera in cui, applauditissima, recitò il suo splendido Poema della croce. «Sì – conferma don Giuseppe -, si era avvicinata molto ai temi religiosi, che sentiva “suoi” specie dopo la scoperta della malattia. E, d’altra parte, non è un caso che a Natale o a Pasqua volesse sempre pubblicare una sua poesia inedita che apriva il nostro bollettino parrocchiale».
Insomma, non è da tutti vedersi offrire scritti da una poetessa che più di uno avrebbe voluto candidata al Nobel… «Ne ero, ne eravamo consci nella mia comunità, infatti, tra pochissimo, vorremmo fare un’edizione speciale che raccolga questi contributi in cui è evidente un’ispirazione cristiana di Merini». Poi, ancora un ricordo bello, quasi commovente: «Non ero in casa perché partecipavo al funerale della mamma di un sacerdote del nostro decanato, don Renato. Alda, come sempre, si era innervosita e non aveva mancato di lasciare incise nella segreteria parole sul suo stato d’animo – diciamo – rudi. Quella volta mi espressi anche io con la stessa chiarezza, dicendo dove ero stato. Dopo pochissimo, non ho mai capito come avesse potuto immediatamente trovare versi così belli, mi dettò, sempre al telefono, una breve poesia, dedicata alla persona scomparsa, “mamma, madre di sacerdote”».
Come poeti, si continua a vivere anche così, negli interrogativi che la morte non potrà mai esaurire, nei ricordi più quotidiani sui Navigli, e in quelli “alti” in Duomo, quando alle esequie il vescovo Franco Giulio Brambilla ha detto: «C’è una via breve per intravedere come da uno spiraglio questo segreto, una sorta di filigrana spirituale, senza violare l’intimo della sua coscienza. La lotta corpo a corpo con la Parola». Al fine della vita, solo quella di Dio. «Telefonava spesso, anche tre o quattro volte al giorno, ogni tanto di notte perché, mi era chiaro, cercava soprattutto qualcuno con cui parlare». Il ricordo di don Giuseppe Vegezzi, parroco di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, è chiaro nella memoria, specie ora che Alda, la poetessa dei Navigli, se n’è andata, lasciando per sempre quell’appartamento che è proprio di fronte alla sua casa. E infatti lui indica i foglietti scritti a mano che i milanesi, ma non solo, continuano ad appendere al portone dell’abitazione da cui tante volte la Merini usciva per passeggiare nella sua amatissima zona.«Di episodi anche curiosi ne avrei tanti da raccontare», continua don Vegezzi, ma senza dubbio, quello delle sue telefonate, è il più scolpito nella mia mente: conversazioni senza volto in cui esprimeva se stessa, si sfogava, nel modo suo tipico, vivace, anche nel linguaggio. Qualche volta quando ero assente, nella segreteria telefonica trovavo più che altro insulti, ma anche questo faceva parte del suo personaggio e sapeva che, comunque, il prete era qui e poteva essere ascoltata».E davvero chi la conosceva bene, sa che si sentiva sola, mater dolorosa e custode della sua stessa sofferenza e di quella del mondo. Che guardava con gli occhi luminosi e trafiggenti del poeta, o meglio, della poetessa che univa all’ispirazione letteraria, l’essere donna, con quella particolarissima vena di sentimento nella quale più di uno voleva vedere solo la follia.Il tema più difficile: il manicomio. Anche su questo don Giuseppe, con un sorriso appena accennato, richiama dialoghi con «l’Alda» non lontani nel tempo: «Gli piaceva andare indietro, al periodo dell’internamento, spiegandomi: “Pensavano che fossi pazza”. Io non rispondevo mai, perché avevo capito che se ne parlava lei era una scelta precisa, se lo facevano altri, un dolore». Quello lenito dall’avvicinarsi della Merini alla fede, a un «mistero che tento di intuire e che continuo a cercare», come disse in Duomo la sera in cui, applauditissima, recitò il suo splendido Poema della croce. «Sì – conferma don Giuseppe -, si era avvicinata molto ai temi religiosi, che sentiva “suoi” specie dopo la scoperta della malattia. E, d’altra parte, non è un caso che a Natale o a Pasqua volesse sempre pubblicare una sua poesia inedita che apriva il nostro bollettino parrocchiale».Insomma, non è da tutti vedersi offrire scritti da una poetessa che più di uno avrebbe voluto candidata al Nobel… «Ne ero, ne eravamo consci nella mia comunità, infatti, tra pochissimo, vorremmo fare un’edizione speciale che raccolga questi contributi in cui è evidente un’ispirazione cristiana di Merini». Poi, ancora un ricordo bello, quasi commovente: «Non ero in casa perché partecipavo al funerale della mamma di un sacerdote del nostro decanato, don Renato. Alda, come sempre, si era innervosita e non aveva mancato di lasciare incise nella segreteria parole sul suo stato d’animo – diciamo – rudi. Quella volta mi espressi anche io con la stessa chiarezza, dicendo dove ero stato. Dopo pochissimo, non ho mai capito come avesse potuto immediatamente trovare versi così belli, mi dettò, sempre al telefono, una breve poesia, dedicata alla persona scomparsa, “mamma, madre di sacerdote”».Come poeti, si continua a vivere anche così, negli interrogativi che la morte non potrà mai esaurire, nei ricordi più quotidiani sui Navigli, e in quelli “alti” in Duomo, quando alle esequie il vescovo Franco Giulio Brambilla ha detto: «C’è una via breve per intravedere come da uno spiraglio questo segreto, una sorta di filigrana spirituale, senza violare l’intimo della sua coscienza. La lotta corpo a corpo con la Parola». Al fine della vita, solo quella di Dio.
Il ricordo
Quelle notti al telefono con Alda Merini
Don Giuseppe Vegezzi, parroco di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, rievoca le conversazioni con la poetessa dei Navigli da poco scomparsa, che abitava proprio di fronte alla sua casa
di Annamaria BRACCINI Redazione
17 Novembre 2009Don Giuseppe Vegezzi