“Quadroni” sono detti quelli che ancora in questi giorni tornano fra le navate del Duomo di Milano, a narrare la vita e i miracoli di san Carlo Borromeo. Un accrescitivo affettuoso, bonario, “spontaneo” per le dimensioni davvero imponenti di questi oltre cinquanta dipinti realizzati nei primissimi anni del Seicento. Ma anche legato a quell’idea stessa di grandezza, di infinita generosità che nella devozione popolare ha sempre accompagnato la memoria del santo vescovo ambrosiano. Come è avvenuto, del resto, anche per il “San Carlone” ad Arona…
Due, dunque, sono i cicli pittorici. Il primo è riferito ai “Fatti della vita del beato Carlo”, e consta di ventisei teleri di notevoli dimensioni (sei metri di base per quasi cinque di altezza), opera di alcuni fra i più celebri maestri lombardi del XVII secolo. Il secondo, invece, ha per oggetto i “Miracoli di san Carlo”, e comprende altrettante tele, di minore grandezza rispetto al primo ciclo ma non di minore importanza, e in buona parte opera dei medesimi artisti.
Mentre infatti veniva avviato il processo di canonizzazione del vescovo Carlo, nel settembre del 1602 il cardinale Federico Borromeo decideva di rendere un eccezionale omaggio alla memoria del suo illustre parente e predecessore con una serie di grandi immagini che raccontassero gli episodi salienti della sua esistenza ai fedeli raccolti nella cattedrale. L’originalità di una simile impresa consisteva dunque sia nelle straordinarie caratteristiche tecniche delle opere da eseguire, sia nella concezione dell’intero complesso, inteso non come una semplice sequenza di dipinti, ma piuttosto come un unico, grandioso libro figurato, da “leggere” pagina per pagina.
Fra i diversi soggetti dei singoli quadri, fin dall’inizio venne prediletto il tema dell’azione di Carlo durante la peste, sublime prova di umiltà, carità e responsabilità. E alle medesime qualità evangeliche fanno riferimento anche le tele che rappresentano il santo vescovo rinunciare a titoli e rendite, distribuendo ai bisognosi i propri beni, nonchè quelle che evidenziano quel suo stile di vita estremamente sobrio ed ascetico.
La fiduciosa speranza
Per questo progetto, la Veneranda Fabbrica del Duomo si affidò ad artisti di sicuro mestiere. Sette quadroni, ad esempio, furono commissionati a Paolo Camillo Landriani, meglio conosciuto come il Duchino, accurato nella ricostruzione d’ambiente e minuzioso nei dettagli di costume. Altri dipinti furono invece assegnati a Giovanni Battista della Rovere (in arte Fiammenghino), a Carlo Buzzi, al Pellegrino…
Tuttavia, ciò che oggi più ci colpisce per fantasia e vivacità in queste tele appartiene senza dubbio alle mani del Morazzone e del Cerano, tra i maggiori interpreti della pittura lombarda dell’età borromaica. Nonostante le inevitabili “diversità”, peraltro, tutte le opere del ciclo sembrano mantenere un comune “stile” narrativo, consistente in un’austera, seppur teatrale, rievocazione di fatti che erano ancora ben vivi nella memoria e nel sentimento del popolo ambrosiano.
Alcuni anni più tardi, ed esattamente il 4 novembre 1610 (alla proclamazione della canonizzazione di san Carlo Borromeo), in Duomo furono esposti oltre ai quadri della Vita le tele appositamente realizzate per testimoniare i miracoli del vescovo milanese. Vivacissima e di notevole qualità, fra le tante, la scena dipinta da Giulio Cesare Procaccini, dove san Carlo tira fuori letteralmente dalle acque del fiume il piccolo Giovanni che sta annegando…
Nella rappresentazione di questi eventi prodigiosi, infatti, il linguaggio pittorico prende un senso più intimo e quotidiano, facendo appello all’esperienza del singolo fedele. L’oratoria ufficiale, insomma, lascia il posto all’emozione, alla fiduciosa speranza che vince anche le miserie della povertà, gli orrori delle malattie, il dramma delle disgrazie. Una spontaneità popolare, quasi da ex voto, che veramente ci restituisce tutta la paterna grandezza di san Carlo, umile fra gli umili, pastore del gregge che gli è stato affidato.