22/09/2008
di Antonio PAOLUCCI
direttore Musei Vaticani
La mostra dedicata a “La Natura morta italiana dal Caravaggio al Settecento” che si tenne, fra il 2002 e il 2003, prima nella Kunsthalle di Monaco poi a Palazzo Strozzi di Firenze, era gremita di capolavori. Mina Gregori, curatrice della memorabile impresa, aveva raccolto dai musei e dalle collezioni private di mezzo mondo, il meglio dei grandi “naturisti” italiani: dal Baschenis allo Strozzi, dal Passerotti al Ceruti, da Vincenzo Campi a Cristoforo Munari, da Bartolomeo Bimbi ad Andrea Belvedere, dal Recco al Ruoppolo, all’Empoli, al Grechetto. Ebbene, al termine dell’affollatissimo rutilante percorso, il visitatore doveva riconoscere che due erano gli assoluti vertici qualitativi della esposizione, tali da oscurare anche i più belli fra i quadri esposti.
Uno dei due era il celebre “Bacco” di Caravaggio conservato agli Uffizi, l’altro la “Fiasca fiorita”, di autore incerto, appartenente alla Pinacoteca civica di Forlì. Quest’ultimo (un piccolo dipinto su tavola, cm. 68,5 x 51,2) esercitava sugli astanti una specie di attrazione ipnotica. Nella sala dove c’era lui, gli altri semplicemente non c’erano. Aveva ragione Luigi Salerno quando (1984), a proposito della “Fiasca fiorita”, scriveva che ci troviamo di fronte a un “caso di sublimità che per intenso sentimento e innata forza pittorica in nulla cede al confronto con l’opera stessa di Caravaggio”.
Ma chi è questo pittore che è bravo e conturbante quanto Caravaggio ma che Caravaggio non è perché lo stile parla di una “temperie di barocco segretamente premente, ma non ancora esploso dal vincolo dell’osservazione”? Queste parole sono di Francesco Arcangeli il quale per primo (1952) seppe intendere l’altissima qualità del dipinto forlivese proponendo il nome di Guido Cagnacci. Hanno condiviso l’attribuzione lo Sterling (1959) e il Volpe (1964) mentre altri hanno pensato al fiorentino Carlo Dolci (Baldassari 1995) e al caravaggesco di prima generazione Tommaso Salini (Gregori 2003). La recente mostra forlivese dedicata a “Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni”, curata da Daniele Benati (Paolucci, Benati 2008), certifica che allo stato attuale degli studi a una attribuzione certa e condivisa sia difficile arrivare.
Io so soltanto che se dovessi illustrare per immagini la celebre galileiana sentenza di Caravaggio (tanta manifattura è fare un quadro buono di fiori come di figure, e in quell’epoca rifiutare l’antica gerarchia del “generi” era come affermare che è la terra a girare intorno al sole) non avrei dubbi. Chiederei che venissero pubblicate, l’una accanto all’altra, la “Canestra” del Merisi all’Ambrosiana e la “Fiasca fiorita”di Forlì. Niente meglio di queste due opere può farci intendere con efficacia didattica altrettanto grande, la portata e il senso della rivoluzione caravaggesca. La scoperta cioè e la contestuale rappresentazione della intrinseca dignità e moralità del Vero visibile; in tutte le sue forme, anche le più umili.