Trento Longaretti ha compiuto cento anni. E noi vogliamo festeggiare con lui e per lui, per la sua splendida carriera artistica, che ha attraversato tutto il Novecento, e che ancora non sembra esaurirsi. Per la sua profonda sensibilità del colore, per cui ha saputo interpretare i misteri della fede cristiana con una bellezza nuova e antica. Per aver dato, attraverso le sue opere, in decenni e decenni di attività, volto e immagine anche agli ultimi, ai nascosti, ai dimenticati.
Una vita per l’arte, insomma. Quella grande, quella vera. L’arte capace di parlare al cuore e alla testa, che emoziona e commuove, che racconta nel segno e nel colore più di tante parole.
Nato a Treviglio il 27 settembre 1916, Trento Longaretti si forma a Milano, presso l’Accademia di Brera, dove gli è maestro Aldo Carpi e dove conosce, tra gli altri, Bruno Cassinari ed Ennio Morlotti. Vicino al movimento “Corrente”, inizia a esporre i suoi dipinti alla fine degli anni Trenta, ma gli eventi bellici – che lo vedono soldato in Sicilia e sul fronte albanese – interrompono la sua attività. Dal 1953 è professore di pittura all’Accademia Carrara di Bergamo, dove insegnerà per 25 anni, diventandone anche direttore.
Pur avendo sempre prediletto la pittura, Longaretti si è costantemente impegnato in diverse discipline artistiche, dall’affresco alle opere grafiche, dal mosaico alle vetrate. Come testimoniano molte chiese e cappelle anche della Diocesi di Milano, che conservano numerose sue opere d’arte sacra, realizzate prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, e a volte – come in Santa Maria Goretti a Milano, per non citare che un unico esempio – quale preziosa memoria di quell’evento stesso.
Il suo Cristo è ieratico e commovente, contratto nell’agonia della Passione, vittorioso sulla morte nella risurrezione. L’immagine di Maria, materna e protettrice, fonte di misericordia. Come la folla di santi, che Trento ha via via ritratto come nostri “fratelli maggiori”, e compagni di viaggio.
Il viaggio, già. Perché vagano, soprattutto, i personaggi di Longaretti. Uomini e donne dalle vite segnate. Uomini e donne segnati dalla vita. Figure precarie, costrette a un peregrinare dolente, mosse da un desiderio, spinte da una necessità. Perché restare non si può. Bisogna andare, e vedere, e sperare.
Ma dove vadano questi “nomadi” non lo sappiamo. E forse non lo sanno neppure loro. Pellegrini, migranti, profughi: alcuni curvi sotto il peso degli anni, altri trascinando qualche ricordo, molti rattristati da una sofferenza che brucia l’anima, prima ancora che la carne. Allungano un passo dietro l’altro tra colline di desolazione, che ostinatamente ricordano il Golgota. Ma è un’umanità che s’affida, questa di Longaretti. Nonostante tutto, contro tutto.
I personaggi di Longaretti sopportano e sperano, come novelli Giobbe, come tanti Cirenei strappati alle loro occupazioni per condividere il peso della Croce, come i discepoli di Emmaus, anch’essi in cammino, anch’essi prostrati. Ed è così che la materia pittorica dell’artista trevigliese, la pennellata corposa e densa, s’intinge della pagina biblica, s’arricchisce della parola evangelica. Senza oleografia, senza finizioni. Come già in Roualt e nei suoi personaggi circensi.
Dov’è, allora, la speranza? Nel colore, innanzitutto, pastoso e luminoso. Là dove, improvviso, un bagliore squarcia le nebbie della solitudine. O dove un violino, rosso, fiammante, vibra di note ad accompagnare la sosta di un gruppo di profughi. E poi nello sguardo dei fanciulli. Vuote sembrano le orbite dei più anziani, stanchi forse di guardare, accecati dal male del mondo. Ma sono i fanciulli a prenderli per mano e guidarli. Sono i piccoli a sapere dove andare, conducendo sulla via del riscatto, fissando negli occhi lo spettatore… E non stupisce tutto ciò. Semplicemente riecheggia ancora l’insegnamento dei Vangeli: «Se non ritornerete come bambini…».
Certo, la pittura di Longaretti è anche altro. Sono i paesaggi, le nature morte, i ritratti, i soggetti religiosi, soprattutto, come abbiamo ricordato… Ma la meditazione sul destino e sulla condizione dell’uomo s’impone, nella sua poetica, come la cifra più alta e costante. Con una visione non soltanto spirituale, ma profondamente, intimamente cristiana. Ed è per questo che, non una parte, ma tutta la sua arte può davvero dirsi sacra.
Auguri, maestro. E grazie per tutto quanto ci ha dato.