Cosa sarà mai la Borsa?
Un cielo stellato di titoli
assai volubili, effimeri
rispetto al firmamento.
Per decenza si è cambiato
il nome a tutte le stelle.
Nella notte di san Lorenzo
sulla volta di Wall Street
vedremo l’evento del secolo.
“La Borsa” è stata scritta da Valentino Zeichen il 12 agosto del 1998, un po’ in anticipo – praticamente dieci anni – sulla grande tempesta che ci ha messo in ginocchio. Ora che il poeta-dandy se ne è andato in una clinica romana dove era stato ricoverato in seguito ad un ictus, questa poesia – a modo suo profetica – ci suggerisce alcune considerazioni.
Non solo il dolore per una vita che se ne va in solitudine e in povertà (l’indigenza era un vero e proprio segno di distinzione del poeta), ma anche la necessità di andare oltre le classificazioni. Che a dire la verità non hanno stavolta “lisciato” del tutto il centro focale del poeta nato a Fiume nel 1938 e poi trasferitosi a Roma nel 1950, visto che qualcuno ha giustamente parlato non solo di ironia, di barocchismo, di aggressività nei riguardi dei miti stantii, ma anche di francescanesimo, o di radicamento nelle contraddizioni della contemporaneità. Perché quello che colpisce della scrittura di Zeichen è la sua apertura critica e indagatrice a 360 gradi sul mondo, dalle piccole cose ai monumenti di Roma e alle questioni planetarie.
Zeichen è probabilmente uno dei poeti per eccellenza del nostro tempo, proprio perché i suoi versi rappresentano tangibilmente tutte le contraddizioni di un mondo che sbandiera il salutismo e poi crea nuove forme di malattia, fino a toglierci “il coraggio/ di far saltare almeno un anello/ della micidiale concatenazione: prodotti nocivi/consumi”.
È difficile parlare di poeta neo-estetizzante o di un semplice dandy quando la sua voce affronta e combatte i falsi miti del nuovo materialismo, magari in modo fin troppo tranciante, e però ancora una volta a modo suo profetico, come quando, alludendo all’esito dell’ultimo conflitto mondiale scrisse che “i neoidealismi dell’Asse/ dichiararono guerra totale/ alle filosofie neopositiviste/ che la vinsero sul campo”, con il risultato, e Zeichen non simpatizzava certamente per il nazismo, che sui “mondi interiori/ calarono fitte tenebre”.
Se la sua carica demistificante non risparmia nessuno, bisogna dire che però nella sua poesia si trova, lo abbiamo d’altronde notato in apertura, una pregnante carica profetica e talvolta mistica, del misticismo devastante di chi riesce ad andare oltre la pubblicità, la persuasività di un mercato edulcorato e angelicizzato, spinto dalla assoluta necessità di vendere anche gli scarti per sopravvivere: “Il demonio aveva scacciato/ l’angelo dal podio poiché / voleva dirigerla Lui/ l’orchestra delle anime”.
Se la componente dissacratoria è evidente nei versi di Zeichen, essa di dirige anche contro i falsi miti, quei tentativi di sostituzione del divino con culti alla moda che ogni tanto si affacciano più sul mercato che nella profondità dell’anima:
Non è raro che in epoche
corrotte dal travestitismo,
imperi il manierismo mimetico,
e la persona ideale smani per
rivestire l’essenza spirituale e
assecondi i canoni dell’alta moda