A volte succede. Vai a intervistare qualcuno, e ti rendi conto d’aver raccolto ben più di un paio di opinioni interessanti o di qualche frase ad effetto. In testa ti rimane un certo sguardo, una luce, una mano che stringe un bicchiere, un sorriso appena accennato, sereno, cordiale. Vorresti capire i segreti di chi ti sta davanti con le parole, e t’accorgi invece che sono stati i silenzi a dirti tutto ciò che c’era da dire.
Di Mario Dondero dicono che è uno dei più grandi fotoreporter del nostro tempo. Dicono che è dalla parte degli ultimi, degli emarginati, degli sfruttati. Dicono che è uno spirito libero, uno che non si lascia condizionare, che racconta la verità così come la trova, andando a cercarla nei luoghi più dimenticati del pianeta. Poi guardi le sue foto, le immagini di una vita, e capisci che è proprio così. Semplicemente, veramente.
Ogni scatto è vissuto, ogni inquadratura partecipata, condivisa, amata. E l’idea che la fotografia sia una meccanica, automatica registrazione della realtà, va definitivamente a dissolversi. Perché cercare la verità non vuol dire essere neutrali. Se c’è una cosa che Dondero non ha mai fatto è quella di chiamarsi fuori, di alzarsi sopra le parti. Lui, dentro i fatti, tra la gente, si è sempre immerso fino al collo, giocandosi in prima persona, con entusiasmo. La sua obiettività, semmai, fa rima con onestà. «Ho visto troppe situazioni d’estremo dolore per essere indifferente alla sorte degli uomini», confida. «E mi chiedo se a volte, invece che fotografare per la storia non si debba intervenire per cambiarla».
Partigiano, del resto, Dondero lo è sempre stato. Prima tra le montagne dell’Ossola, giovanissimo, con le brigate garibaldine. Poi con la macchina per scrivere e il taccuino nella Milano in cui è nato, 75 anni fa. Infine con rullini e macchina fotografica, quando ha capito che proprio così poteva raccontare meglio quanto accadeva attorno a lui, o lontano nel mondo, sperimentando giorno dopo giorno come fosse vero il motto di Walter Benjamin: «Una foto vale mille parole». Sempre “di parte”, comunque: quella di chi non ha voce, né visibilità.
«Fotografo per far conoscere storie di civiltà», spiega. Come se fosse scontato, come se tutti facessero come lui. «Fotografo per far sapere di una generosità spesso sconosciuta, impensata. E poi perché sono sedotto dalla simpatia, per la gente, della gente». E ti scopri a fissare, quasi con imbarazzo, quei suoi occhi chiari, pensando a quanto hanno visto in tutti questi anni, ai volti e agli sguardi su cui si sono posati nei diversi angoli del globo, attraverso un mirino e un obiettivo, o più spesso senza.
Gli ex combattenti della Repubblica spagnola, i nomadi d’Irlanda con i loro carrozzoni, i fermenti del maggio francese, i prigionieri degli scontri tra Marocco e Algeria per un pugno di sabbia, i villaggi più remoti della savana africana… Cresciuto a Milano, con Genova nel cuore e una casa nell’Appennino piceno, Dondero è un vagabondo senza fissa dimora, uno che, come dice lui stesso, «è un po’ di tutti i posti, e di nessuno in particolare». Uno che il mondo l’ha girato in lungo e in largo, senza inquietudine, senz’affanni, ma con una gioiosa voglia di capire, di conoscere, di incontrare. E con rabbia, quando serve. Riuscire a indignarsi, e voler reagire, è ancora il primo passo per cercare di rimediare all’ingiustizia.
Fotografa in bianco e nero, Mario Dondero. Una scelta stilistica, di gusto, di consuetudine. Ma anche una scelta di linguaggio, per quel tanto di atemporale che il bianco e nero trasmette, per quel senso di sacralità, persino, che porta con sé. Le sue immagini sono belle, alcune, molte, sono straordinariamente belle. Ma è un “bello” di natura, istintivo, mai cercato, mai forzato, mai artefatto. L’estetismo fine a se stesso a Dondero non interessa. Non può interessargli. L’importante è dire, l’essenziale è comunicare.
Per tutto questo, insomma, Mario Dondero è considerato un maestro, anche se discepoli non ne ha poi molti, di allievi forse nessuno. Ma c’è anche un’altra ragione: il suo rapporto con il “soggetto”, basato sul pudore e sul rispetto, sulla dignità sempre. «La fotografia», ti dice, «può essere invadente. Se capisci che la foto che stai per scattare, per quanto bella, per quanto importante, può ferire o offendere qualcuno, è meglio non farla». E allora grazie, Mario, anche per le foto che non hai fatto, per gli scatti che non hai rubato “a tutti i costi”, per le immagini che sono rimaste soltanto nei tuoi ricordi. Quelle ce le faremo raccontare.