Fotografa il silenzio, Giovanni Chiaramonte. Sotto il cielo e sopra la terra di Gerusalemme. Ritraendo pietre, ulivi, porte, pareti, scale, finestre, pozzi: frammenti di un luogo senza tempo, vocato all’universalità, ispirato all’eternità, ammantato di sacralità. Dove la stessa presenza umana pare marginale, transitoria: non perché insignificante, anzi, ma proprio perché quell’umanità è redenta e salvata per sempre. Esattamente qui, fra il Getsemani e il Golgota, fino al Sepolcro scoperchiato: nella stanza dell’ultima cena e della lavanda dei piedi, della mano protesa di Tommaso e del fuoco dello Spirito Santo.
Chiaramonte è uno dei più noti e apprezzati fotografi italiani. Un cercatore di luoghi, di atmosfere, di storie: di verità, in una parola. A un certo punto della sua carriera, dopo aver vissuto e lavorato nelle maggiori metropoli europee, ha sentito il bisogno, la necessità di posare il suo sguardo fotografico sulla città delle città, Jerusalem: come un richiamo, come un’urgenza. Era il 1988. Il muro di Berlino, che lui stesso presidiava da anni, stava per crollare, e con esso una certa visione, una certa idea dell’intero pianeta. Ma era un altro, il muro che ormai gli interessava…
Trentasei scatti di quello storico reportage gerosolimitano di Giovanni Chiaramonte sono oggi in mostra al Museo Diocesano di Milano. Trentasei istantanee che illustrano il cuore della Terra santa, non tanto nei suoi aspetti più eclatanti, quanto nel suo volto più intimo e riposto. Trentasei immagini che di Gerusalemme colgono l’anima, scavando nelle rughe dei suoi monumenti, accarezzando le foglie di una natura aspra e orgogliosa, seguendo lo skyline di un agglomerato urbano eletto a centro del mondo (come, del resto, era ben rappresentato nelle mappe del Medioevo).
Siciliano nato a Varese, classe 1948, Chiaramonte forma il suo sguardo a partire dall’estetica teologica di Guardini e Von Balthasar, nutrendolo con la passione liturgica della Chiesa d’Oriente, con le visioni immaginifiche di Tarkovskij. Ne scaturisce una fotografia sobria, essenziale, antibarocca. Evocativa, più che narrativa. Che lavora per sottrazione, non per accumulo. Che mostra delle assenze, soprattutto. Con linguaggio infine evangelico: così che noi spettatori ci ritroviamo spiazzati e sorpresi, come le pie donne davanti alla tomba vuota nel mattino pasquale.
Gerusalemme è la sua patria d’elezione, «il luogo sconosciuto in cui avrei voluto e dovuto essere posto secondo il desiderio del cuore», come sembra confessare nell’incipit del breve testo che introduce il volume edito dalla Libreria Editrice Vaticana e che fa da catalogo alla rassegna stessa al Diocesano (con le “descritture” poetiche di Umberto Fiori).
Una Città Santa, quella che Chiaramonte ritrae, profondamente vera, reale, concreta, eppure anche scientemente sognata, immaginata, ricreata. Dove i cieli non sono necessariamente quelli blu da cartolina. Dove i segni della vita quotidiana – un paio di sandali, una sedia, una tenda, un catino… – rimandano a presenze soltanto intuite, di chi è passato o passerà, di chi c’è ma non si vede. Dove, per chi conosce Gerusalemme, tutto è esattamente riconoscibile, familiare persino, nella condivisione di una memoria comune, ma dove allo stesso tempo ogni cosa si rivela nuova e inedita.
È la quiete irreale del bazar. Lo scintillio della cupola dorata della moschea della Roccia. L’atmosfera conviviale del Cenacolo, Le croci riposte dopo la processione del Venerdì Santo. Il passaggio di una donna sul crinale d’ombra. Il gioco di un bimbo davanti alla tomba di Davide. Il cieco che tasta le strade di Jerusalem con la sua bacchetta bianca. La solitaria candela nella cappella dell’Ascensione.
E il raggio di luce che penetra e si espande nella penombra della Via Dolorosa. E le rondini che si rincorrono fra le millenarie rovine: come una promessa di eterna primavera, di continua rinascita.