Ogni popolo stabilisce silenziosamente e senza intenzione quali giorni resteranno nella sua memoria. Quali saranno simbolo di dolore o evocheranno la paura, quali restituiranno senso alla speranza o regaleranno sempre e comunque un sorriso. Un popolo non lo decide mai sul momento. Tutto viene scavato e rielaborato nel tempo. […]
Proviamo a pensare a Italia-Germania del 4-3. Città del Messico, 1970, mezzanotte tra il 17 e il 18 giugno, ora italiana. E a rispondere alla domanda regina: perché è diventata questa la partita del secolo? Perché, ad esempio, non l’Italia-Germania del 3-1 di dodici anni dopo, Madrid, 11 luglio 1982, ore 20.00? Eppure fu proprio con quest’ultima partita che l’Italia divenne per la terza volta nella sua storia campione del mondo […].
Perché? La risposta è nello spirito del tempo e in quella irregolarità, a due passi dalla pazzia, che caratterizzò la partita. Come si cercherà poi di raccontare, quella notte fu infatti la notte delle prime volte. Che nessuno aveva preordinato. Fu certo la prima volta in cui l’Italia giocò in televisione a mezzanotte, nell’ora in cui i sogni si liberano e le convenzioni sociali si allentano. Con la fine dei supplementari che scoccò alle due, orario convenzionalmente impossibile per festeggiare e che invece scatenò una delle feste più spontanee e liberatorie e di massa di cui vi sia memoria. Fu la prima volta che un popolo intero, di tutte le classi e le età e le idee politiche, si diede spontaneamente convegno nelle piazze illuminate di ogni città italiana. Prima di allora non era mai successo, tanto che per circa mezz’ora, dopo le due, i tifosi vagarono quasi alla ricerca di un’idea su come potere sfogare la loro felicità. I clacson di passaggio verso il centro diedero la linea. Fu anche la prima volta delle donne. La metà del cielo fin lì tenuta fuori dagli stadi, tanto da far nascere sul tema anni prima una canzone di successo, quella notte sentì il brivido delle atmosfere domestiche, e più volte gioì abbracciata all’altra metà, come Rivera e Riva dopo il gol del 4-3. Fu ancora, senza ombra di dubbio, la prima volta del tricolore, per lunghi anni, soprattutto in quel periodo di contestazione, monopolio dei simpatizzanti dell’estrema destra. E invece i colori della bandiera si affacciarono progressivamente nella notte. Nessuno ne aveva esemplari in casa, nessuno si era preparato a venderne, sicché tutto venne fatto artificialmente con una camicia, uno spray, da issare sulle auto che ancora potevano circolare in piazza Duomo o piazza del Plebiscito. […]
Tante prime volte tutte insieme, dunque, concentrate in un pugno di ore notturne. Un’esperienza collettiva indimenticabile. Ma era anche stata la prima volta, e fu questo a sprigionare la magia, che l’Italia aveva giocato in attacco, senza cautele tattiche e con il cuore a mille. Perché, inutile negarlo e senza nulla togliere al gol iniziale di Roberto Boninsegna detto Bonimba, la vera partita furono i tempi supplementari. Gli italiani maledissero nei modi più rabbiosi e coloriti Karl-Heinz Schnellinger, il terzino tedesco del Milan che, ingrato verso il Paese che lo aveva reso ricco, aveva con la sua zampata al secondo minuto di recupero dato il pareggio alla grande Germania di Franz Beckenbauer. E invece a Schnellinger gli italiani avrebbero dovuto erigere un monumento. Perché fu lui a regalarci quell’incredibile mezz’ora di vita davanti al video. Dove ogni tattica saltò. E una virtù fra tutte si levò: la generosità nell’assalto alla baionetta, reso intrepido dall’aria rarefatta dei duemila metri dell’Azteca. Nel decennio precedente le squadre italiane avevano vinto ovunque grazie alla tattica del cosiddetto “catenaccio” e del contropiede. Erano l’Inter di Helenio Herrera e il Milan di Nereo Rocco. Ma la nazionale con quella tattica aveva sempre perso. Nemmeno ammessa ai Mondiali in Svezia, fuori subito in Cile, fuori subito indecorosamente in Inghilterra contro la Corea del dentista Pak Doo-ik. Aveva vinto gli europei del ’68 grazie a un fortunato sorteggio nelle semifinali contro l’Unione Sovietica. La meraviglia di tutti fu vederla vincere di slancio e forza, e genio insieme, proprio contro la Germania, verso cui il popolo italiano sentiva un inconfessabile complesso di inferiorità. […]
E proprio contro la Germania tutta disciplina e organizzazione l’Italia dimenticò quella notte, nel momento cruciale della sfida, la tattica che l’aveva resa famosa. Sembrò un suicidio. Già dall’inizio dei supplementari si capì che non c’erano più regole. Fabrizio Poletti, roccia granata, subentrato a Rosato per infortunio, appena entrato in campo fece quasi un autogol servendo un’assurda palla al pirata Müller a un metro dalla porta. Sembrava un sortilegio. L’Italia affondava per colpa dei terzini, dell’una e dell’altra parte. Commentò il telecronista Nando Martellini: «Tutto facile per la Germania adesso […]. Squadra demoralizzata ormai la nostra». E invece un altro terzino pareggiò per l’Italia, Tarcisio Burgnich, incredibile. E anche quella fu una prima volta. Perché se l’altro terzino, Giacinto Facchetti, di gol in carriera ne fece più di sessanta, Burgnich li faceva ogni morte di papa e in una partita ufficiale della nazionale non ne aveva mai segnati. Perciò fu ancora più bello. Chissà come si era trovato al centro dell’area tedesca, fatto sta che ci fece amare d’impeto quel nome, Tarcisio, che sapeva di Friuli e di civiltà contadina. Burgnich a fare il centravanti… C’era qualcosa di incredibile in quanto vedevamo, perfino l’estetica andava assumendo qualcosa di surreale. Beckenbauer con il braccio al collo che piombava sul pallone come una locomotiva; De Sisti, sempre ordinato ed elegante, che girava con i calzettoni alla cacaiola, come si diceva ai tempi, per significare che erano arrotolati alle caviglie, Domenghini con la maglia fuori dai pantaloncini che gli si allungava fino alle cosce. Finché in quel paesaggio da fumetti giunse il gol di Riva con un diagonale rasoterra di potenza irresistibile. Ma poi di nuovo tutto saltò. Perché la Germania pareggiò ancora e d’incanto vedemmo Rivera sulla linea della nostra porta, a difendere dietro Albertosi. E ci domandammo «che ci fa Rivera sulla linea di porta?». Nemmeno il tempo di chiedercelo e la palla colpita da Müller gli sfiorò letteralmente il fianco finendo indisturbata in rete, come se nemmeno lui fosse riuscito a prendere sul serio quella posizione astrusa. Allora mandammo improperi a Rivera. E invece partì in fuga sulla sinistra Boninsegna. Secondo gli schemi regolari, lui era il goleador e Rivera il rifinitore. Ma di schemi non ce n’erano più. E dunque Boninsegna fece il rifinitore passando la palla al centro dell’area tedesca e Rivera fece il goleador quasi con passo di danza. Di qua il portiere di là la palla. E mentre l’Italia si abbracciava davanti ai televisori, con l’urlo «gol! gol!» che prorompeva moltiplicandosi dalle finestre aperte della notte estiva, vi fu l’abbraccio vittorioso tra i due GR, Gianni Rivera e Gigi Riva, che una splendida foto immortalò avvinti tra loro, inginocchiati sul prato.
Sì, nel conto mettiamo dunque anche quella prima volta. La volta, cioè, che l’Italia degli Azzurri andò all’attacco e vinse, interpretando il sentimento di un’intera generazione, non solo studentesca, che un’utopia dopo l’altra si stava trasformando in un Icaro collettivo pronto a volare verso un paradiso irraggiungibile. Andare all’attacco per cambiare il mondo, per realizzare diritti, libero amore e giustizia sociale, dentro un grande disordine creativo; come quello che era andato in scena all’Azteca, in quei Mondiali da cui il Sessantotto messicano venne tenuto fuori con la strage terribile della Piazza delle Tre Culture.
L’immaginazione fa scherzi mancini, ma è bello pensare che lo spirito del tempo sia entrato comunque dentro quei Mondiali, almeno metaforicamente, grazie alla squadra italiana più pazza della storia. […]
L’Italia del ’70, che pure aveva alle spalle il 12 dicembre di Piazza Fontana, era il Paese della speranza, del protagonismo fiducioso della generazione del baby boom postbellico, era il Paese in cui i genitori con i calli sulle mani sognavano il figlio dottore. Diciamolo: era il Paese fatto, con fatica e dedizione, dalla generazione degli ottantenni contro cui, cinquanta anni dopo, si sarebbe accanito vigliaccamente il Coronavirus di questo 2020. Quegli ottantenni inizialmente visti con sconcertante sollievo come le vittime sole e predilette del virus assassino videro nel 4-3 la conferma che con la loro fatica e i loro risparmi stavano costruendo una Italia orgogliosa e nuova, capace di trionfare nello sport più amato contro la nazione più forte. Proprio con quei nomi da albero degli zoccoli: Tarcisio e Giacinto, Angelo e Giovanni. E non c’è contrasto più straziante di quello che a questo punto si affaccia, come per legge di gravità, tra la straordinaria e quasi orgiastica festa di popolo, quella comunione felice del 1970, e il silenzio livido e solitario dei camion militari che portano via le bare delle vittime da Bergamo, sottraendole a ogni affetto possibile. E tuttavia, proprio di fronte alla tragedia nazionale improvvisa, quella partita resta, cinquant’anni dopo, una bandiera piantata nella storia del nostro Novecento. Simboleggia, con altri indimenticabili momenti delle istituzioni, della politica, della cultura, le vittorie raggiunte con le unghie e con i denti dal popolo italiano. Che sembrava schiavo senza speranza della ferocia nazista e se ne è liberato grazie a minoranze coraggiose; che sembrava destinato solo a emigrare e ha costruito una delle maggiori potenze economiche mondiali; che sembrava obbligato, come pure si scrisse, a convivere per sempre con il terrorismo, e di nuovo con minoranze coraggiose lo ha battuto; che sembrò in ginocchio contro Cosa Nostra e ancora grazie a importanti e coraggiose minoranze l’ha decapitata e indebolita. Per questo anche oggi quella partita può essere un emblema. Le perdite del 2020 non sono state e non saranno né poche né indolori. Ma l’Italia del 4-3 non è stata solo una squadra di calcio. E può tornare.