Ricordare la figura di Karol Wojtyla, san Giovanni Paolo II, a cent’anni dalla nascita – il 18 maggio 1920 a Wadovice – può costituire l’occasione per almeno due riflessioni.
La prima è sulla figura del Papa oggi sugli altari e la sua concezione di santità poggiata, fra gli altri, su due pilastri portanti: la fede nella presenza di Dio e lo spirito missionario. Con la consapevolezza che, se c’è un messaggio rilanciato continuamente nel lungo Pontificato di Wojtyla – ripreso dal Concilio Vaticano II – è proprio quello della vocazione universale alla santità: dimensione fondamentale dell’esistenza della Chiesa e aspirazione di ogni vero cristiano anche nella quotidianità, cercando di essere “straordinari” nell’“ordinario”.
La seconda riflessione, richiama invece – insieme al profilo del Santo, del Vescovo di Roma che ha accompagnato più generazioni di cattolici esortati a «vivere la vita secondo la misura alta», del Papa che ha sempre privilegiato di più l’aspetto morale, la preghiera, il contatto con il popolo, meno la guida di strutture di governo che riteneva collaudate – anche il profilo del leader mondiale. Ovvero il Pontefice che «ha collocato la sua Chiesa nel cuore della storia» (così Andrea Riccardi), «venuto da un Paese lontano», cresciuto nella Polonia perseguitata dal nazismo, poi vescovo nel periodo comunista, ma prima operaio, seminarista, sacerdote, professore, poeta… Un Papa che, eletto a 58 anni, si è misurato con il “ritorno del religioso”, ma al contempo con la “crisi del cattolicesimo”, con l’Occidente secolarizzato e con il comunismo (almeno fino alla caduta del Muro), con i nuovi problemi legati alla bioetica, e parecchio altro.
Ecco, riprendere alcuni tratti delineanti le sfaccettature di questo stesso profilo, significa tornare a riflettere – oltre che sulla peculiarità di una biografia umana e spirituale – sulla portata veramente storica del più lungo Pontificato del Novecento (quasi 27 anni) e sulle impronte che il Papa polacco ha lasciato nei suoi tentativi mirati a rimodellare la presenza della Chiesa nelle società del suo tempo – in larga parte anche il nostro – fino a renderci conto, a distanza, del reale impatto di tante parole (omelie, discorsi, messaggi, encicliche, esortazioni, ecc) e di tanti gesti (incontri, viaggi, visite, scelte simboliche, decisioni, ecc). Non tanto per indugiare su un percorso o un modello del resto additato chiaramente nelle rapide risposte alla richiesta «Santo subito» dalla Chiesa di Joseph Ratzinger e di Jorge Bergoglio. E nemmeno per prefigurare bilanci assoluti di carattere “politico” che solo in futuro si potranno fare (essendo certamente troppo tardi per la cronaca, ma ancora troppo presto per la storia). Piuttosto, per enucleare lo specifico contributo dato dal Papato di Wojtyla al cattolicesimo contemporaneo e dal quale hanno attinto – in buona parte – i suoi due successori nel servizio petrino.
Tutto questo al di là delle interpretazioni mediatiche a proposito di un Papa che aveva «capito perfettamente il ruolo sempre più centrale che poteva giocare la comunicazione» (è la tesi di Daniele Menozzi, che poi si interroga con perplessità sul ruolo cruciale avuto dai movimenti ecclesiali durante tutta l’èra wojtyliana), ma anche al di là dei numeri da primato da lui raggiunti: i viaggi apostolici, le assemblee sinodali (importantissima l’assise straordinaria del 1985, a vent’anni dalla fine del Concilio), i Paesi visitati, i Capi di Stato incontrati, le migliaia di canonizzazioni e beatificazioni, i documenti pubblicati (encicliche, esortazioni apostoliche, testi magisteriali vari, senza dimenticare il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica e il nuovo Codice di diritto canonico), i raduni di massa presieduti (si pensi alle Gmg: che dire dei cinque milioni di ragazzi che l’accolsero a Manila nel 1995?).
Tutto questo, infine, a prescindere da progetti anelati, ma privi di grandi progressi: per esempio la possibilità di recarsi in Cina, in Russia, in Iraq; il dialogo ecumenico (da considerare le distanze rimaste con gli anglicani e gli ortodossi); l’attenuazione del divario Nord-Sud del mondo; la cancellazione o almeno riduzione delle povertà, delle ingiustizie, delle guerre (sovente al centro dei suoi appelli, dal Medio Oriente al Rwanda, ai Balcani). Senza trascurare, d’altro canto, il carattere straordinario di appuntamenti inediti come l’Incontro di preghiera per la pace con i rappresentanti delle religioni mondiali ad Assisi nel 1986, anno in cui Wojtyla fu il primo Pontefice a pregare con un Rabbino in sinagoga a Roma; oppure il Giubileo del 2000, con la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa. E si potrebbe continuare…
Ciò che però conta è dare atto, dietro ogni cosa – sino alla morte che trasformò la sua croce in amore, dopo il “mancato martirio” del 1981 – di tante fatiche spese a mostrare il volto umano di Dio da parte di un uomo di azione e contemplazione, testimone di speranza e del grande dovere – per la Chiesa tutta – di evangelizzare. Sì, di portare Cristo al centro della vita e della storia.