Rosa Maria, ecuadoregna, faceva la badante; ma entrambe le signore anziane delle quali si occupava, per paura di essere contagiate, le hanno gentilmente chiesto di rimanere a casa sua. Pure Mohamed, egiziano, ha perso il lavoro: la pizzeria dove faceva il cuoco ha chiuso i battenti appena è iniziato il lockdown. Mario, muratore a chiamata, è fermo da quasi due mesi: i cantieri sono bloccati dalla fine di febbraio. Tutti e tre non avevano un contratto e, quindi, oggi non ricevono altro aiuto che quello offerto dall’Emporio della Solidarietà di Lambrate, uno degli otto aperti in Diocesi di Milano dalla Caritas Ambrosiana.
Lunedì mattina, Rosa Maria, Mohamed e Mario attendono il loro turno nel cortile a fianco della casa parrocchiale. Con indosso la mascherina si mettono in coda, tenendo le distanze, come fossero davanti a un qualunque supermercato. Poi entrano uno alla volta, fanno il giro degli scaffali, caricano il carrello e alla cassa presentano la tessera a punti che gli è stata data dalla Caritas Ambrosiana. L’operatore fa passare i prodotti sotto il lettore ottico e scala dalla tessera i punti corrispondenti al costo dei prodotti.
«Meno male che esiste questo posto… Mio figlio è disabile, non può lavorare e sono sola, finora mi sono sempre arrangiata, ma adesso è diventato durissimo», racconta Rosa Maria. Anche Mohamed pare disorientato: «Ho frequentato le scuole in Italia. Ho studiato grafica e mi sarebbe piaciuto fare un lavoro in quel campo, ma non ho trovato nulla e così mi sono adattato: ho imparato a fare la pizza, ho conosciuto una ragazza, mi sono sposato e ho avuto da lei una bambina. I soldi sono sempre stati pochi, ma non avevo mai dovuto chiedere aiuto a nessuno. Poi è arrivato il virus…».
Mario all’uscita regge nelle mani quattro borse stracolme: «Beh, ho una famiglia numerosa: siamo in sei, io, mia moglie e quattro figli adolescenti – quasi si giustifica -. Tutti contavano sul mio stipendio. Fino a quando ho lavorato anche 12 ore di seguito al giorno su e giù per i pontili ce la siamo sempre cavata. Ora non più».
Sotto la Milano dei grattacieli e delle week è sempre esistita la città del lavoro precario, intermittente e in nero. In tempi normali le due città hanno a lungo convissuto in un fragile equilibrio, che però teneva. L’epidemia ha messo in letargo la Milano dei primati, sta cancellando quella che arranca e rischia di far saltare quella convivenza.
«La quarantena non colpisce tutti allo stesso mando. Per colf e badanti, lavapiatti e camerieri, addetti alle pulizie nei grandi alberghi il lockdown ha devastato bilanci familiari già al limite della sussistenza», osserva Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana.
Tuttavia intervenire e farlo tempestivamente, prima che la situazione peggiori e diventi più difficile recuperare chi è rimasto indietro, non è facile. Tutte le misure previste finora dal governo non raggiungeranno proprio i più fragili. E d’altronde come poter dare un contributo a chi perde il lavoro se quel lavoro ufficialmente non esiste? Come farlo, evitando che qualcuno se ne approfitti? I centri di ascolto parrocchiali e i servizi Caritas hanno offerto una rete di protezione. E proprio la distribuzione di generi alimentari è stata la prima e immediata risposta.
«Dal 24 febbraio, ovvero dall’inizio dell’emergenza sanitaria in Lombardia, abbiamo potenziato gli 8 Empori e distribuito tessere di emergenza per le famiglie colpite dai danni collaterali del Covid19 – spiega Gualzetti -. Attraverso questo sistema oggi distribuiamo al giorno 5,5 quintali di generi alimentari, il 50% in più rispetto al periodo precedente alla crisi e assistiamo duemila famiglie, il 25% in più. Nel frattempo continua la distribuzione dei pacchi viveri in 126 centri di ascolto fuori da Milano, dove nonostante le limitazioni imposte dalla quarantena, questo servizio essenziale è rimasto attivo. In città, invece, abbiamo scelto di collaborare con il sistema messo in campo dal Comune con gli 8 hub municipali. Complessivamente stimiamo che questi aiuti arrivino a 16.500 famiglie, tremila solo nel capoluogo. Tuttavia sappiamo che questi interventi non saranno sufficienti se le attività economiche non riprenderanno in un tempo ragionevole».
Secondo una stima dei sindacati, nell’area metropolitana sarebbero 300 mila le persone che hanno perso il lavoro in seguito alla paralisi di questi mesi. Un numero enorme. Che fa temere il peggio. «La crisi sociale scoppiata dentro l’emergenza sanitaria potrebbe essere particolarmente severa, forse addirittura peggiore di quella che abbiamo conosciuto nel decennio appena finito – avverte Gualzetti -. Se non faremo presto qualcosa di proporzionato a questi bisogni, una volta usciti dal tunnel in cui siamo finiti, rischiamo di trovarci più disuguali di prima, con tutte le conseguenze che una maggiore divaricazione sociale può avere per la tenuta democratica del Paese».