Mercoledì 8 aprile sul Corriere della Sera è stata pubblicata nella rubrica “Lo dico al Corriere”, curata dal giornalista Aldo Cazzullo, una mia breve lettera di questo tenore:
Caro Aldo,
leggo che, secondo Giovanni Bazoli, il cardinal Martini aveva meditato molto sul mistero del dolore ingiusto inflitto agli uomini. Al riguardo, ho trovato nelle sue “Conversazioni notturne a Gerusalemme” un passo quasi profetico, che sembra scritto apposta per questa Settimana Santa. “Sono “peccati del mondo” anche le catastrofi naturali, che falciano migliaia di persone – riflette il cardinale -. Ho constatato più volte, tuttavia, che proprio questo male risveglia molte forze positive. I giovani si svegliano e affermano: voglio aiutare! In questo caso il male tira fuori il meglio delle persone. Non è una spiegazione soddisfacente, ma intuiamo che dalla sofferenza possiamo imparare molto”. Mi piace affidare le parole di Martini alla riflessione dei lettori del Corriere.
Marco Vergottini
La risposta di Cazzullo è articolata, qui basta riportare come egli si riferisca al ricordo della sua visita al Cardinale a Gerusalemme nel gennaio 2005, quando «Martini stava salutando un gruppo di anziani israeliani e palestinesi, tutti in lacrime. Erano gli aderenti al Parents Circle, un’associazione che riunisce genitori di vittime del terrorismo di entrambi gli schieramenti. Gente che – disse il cardinale – si sarebbe ignorata o combattuta, se non fosse stata unita dal dolore. Che a volte tira davvero fuori il meglio che è in noi».
E questo è una prima – provvisoria, anche se insoddisfacente – acquisizione: dal male può nascere il bene. Ce lo insegnano oggi al tempo del Covid-19 medici, infermieri, ricercatori, volontari che nel silenzio hanno portato soccorso all’umanità ferita e dolente di questi giorni.
Tuttavia, la crisi drammatica che stiamo vivendo in questi giorni terribili, forse la più grave dopo la seconda guerra mondiale, ci mette di fronte alla questione lancinante: Dov’è Dio? Perché non parla?
Sul tema del “silenzio di Dio” ci istruisce sempre il cardinale Martini, che già nella prima sessione della Cattedra dei non credenti (1987), di fronte alla questione della presunta indifferenza di Dio di fronte al dolore innocente chiedeva al credente: ho davvero conosciuto Dio? Parlavo di lui o di un altro? E la riposta di Martini non lascia adito a dubbi: per il cristiano è dalla croce che Dio parla nel silenzio e nell’abbandono, rivelando ciò che Egli è.
Il significato rivelativo della risurrezione non appare senza la croce, bensì la include. La luce della Pasqua scioglie l’ambiguità della croce, dell’assenza dell’intervento risolutore di Dio, mostrando in che modo Dio era presente: patendo. Se la risurrezione operata dal Padre è indisgiungibile dalla morte in croce del Figlio, allora questo significa che la verità di Dio e la vicenda di Gesù non possono essere separate.
L’evento pasquale dice l’agire potente di Dio proprio in quanto include la passività impotente dell’uomo Gesù: l’intimità tra Gesù e il Padre è attestata dal fatto che l’onnipotenza di Dio passa dentro e attraverso il mistero della (impotenza della) croce.
Nella VI sessione della Cattedra – intitolata «Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio» (1992) – nell’intervento conclusivo il Cardinale presenta la croce come icona conclusiva del silenzio di Dio, rilegando insieme tre espressioni che ritornano nel racconto della passione evangelica.
In primo luogo, Gesù taceva davanti alle accuse e rivoltegli: «Il sommo sacerdote gli disse: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano contro di te?”. Ma Gesù taceva» (Mt 26,62-63). Nella seconda scena compare il grido di Gesù in croce, che in Matteo e Marco costituiscono l’unica parola da lui pronunciata sulla croce.: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Infine, il grido di abbandono: «Padre, nelle tue mani consegno (abbandono) il mio spirito» (Lc 23,46).
Martini così concludeva:
Tre momenti di Gesù — il silenzio dell’uomo afflitto e perseguitato, il grido dell’abbandonato da Dio, cioè la denuncia del silenzio di Dio, il grido di chi si abbandona al silenzio di Dio Padre —, formano un’unica icona perché sono contenuti l’uno nell’altro, perché l’uno sviluppa l’altro. Essi richiamano, nel loro insieme, la famosa preghiera dell’ebreo nel ghetto di Varsavia prima di essere bruciato vivo: «Dio ha fatto di tutto per spezzare la mia fede in lui… Ho seguito Dio anche quando mi ha respinto… L’ho amato e lo amo anche se mi ha torturato fino alla morte, mi ha ridotto alla vergogna e alla derisione… Ma io crederò sempre in te e muoio come ho vissuto, in una fede incrollabile in te» (Cf. M.D. Molinié, La lotta di Giacobbe, Brescia 1969, pp. 21-24).
Tornando all’oggi, a questo sabato della storia, dove sotto la croce trasciniamo con noi la nostra impotenza di fronte al flagello invisibile che sta colpendo la nostra società, sorge la richiesta che Dio si faccia presente, batta un colpo, ci liberi dal male oscuro che continua a mietere vittime fra i nostri cari, che venga a consolare il dolore che ci afferra fin nelle midolle e ci getta nello sconforto. Forse come credenti ci troviamo smarriti di fronte a questa “sconfitta di Dio”. Nella penultima Veglia pasquale celebrata nel duomo di Milano, Martini ardiva affermare che nel momento in cui le tenebre sembrano richiudersi su di lui, Gesù sofferente partecipa al nostro inferno, l’inferno dell’assenza di Dio., ma il suo amore per noi – l’amore crocefisso – fa sì che la croce diventi rivelazione del Figlio di Dio. Nella sua agonia Gesù non ci lascia soli fino al grido dell’abbandono, un grido colmo di speranza e di attesa. La speranza e l’attesa di Maria di Magdala che, il giorno dopo il Sabato, avendo riconosciuto al sepolcro Colui che l’ha chiamata per nome, corre pazza di gioia a portare l’annuncio della sua stupenda esperienza di fede in un solo grido: «Ho visto il Signore!».