Da sette anni è al fianco dei detenuti e degli operatori penitenziari del carcere di San Vittore, uno degli istituti di pena dove è scoppiata più aspra la rivolta di chi è dietro le sbarre a seguito delle restrizioni imposte dal decreto governativo per limitare la diffusione del contagio da Coronavirus. Dopo le violente proteste di alcuni gruppi di detenuti asserragliati sul tetto della struttura, il cappellano don Marco Recalcati ha visitato tutti i reparti del penitenziario. Con tutti ha potuto parlare e raccogliere le emozioni provate in una giornata che non esita a definire difficilmente gestibile con un esito, per niente scontato, senza feriti e morti. «La situazione è rientrata, dopo una lunga trattativa guidata dal direttore del carcere e altri operatori della giustizia. Il giorno dopo ho trovato molti detenuti spaventati per quanto è successo. Diversi mi hanno riferito di aver visto fumo salire dal basso fino alla cella e di aver provato una sensazione di panico e di paura di fronte a un evento incontrollabile e imprevedibile. Dall’altra parte c’era lo smarrimento e l’amarezza degli operatori penitenziari per un lungo lavoro di attenzione alle persone detenute che viene distrutto in poche ore. Sono qui da sette anni e prima non conoscevo la realtà del carcere dove ho trovato una professionalità e sensibilità da parte di tutti, dalla polizia penitenziaria al personale sanitario, dagli educatori ai tanti volontari».
Che realtà ha conosciuto in concreto?
Tante persone all’esterno vedono il carcere come il luogo dei “cattivi”. Un detenuto non va considerato un delinquente tout court, spesso siamo in presenza di reati che nascondono grandi fragilità. Sia quando incontri un tossicodipendente, sia quando ti imbatti in un senza fissa dimora, gente che non ha riferimenti familiari esterni. Quello che abbiamo provato è stato un grande smarrimento e una tensione palpabile. Ho ricevuto tante telefonate di familiari preoccupati e di parenti ansiosi di avere notizie. Ho dovuto rassicurare e tranquillizzare di fronte a una rivolta scatenata dalle ordinarie fatiche che si vivono dietro le sbarre, aggravate dalle limitazioni agli incontri con i propri cari in seguito all’emergenza Coronavirus. Direi che è lo smarrimento il sentimento provato da tutti in queste difficili ore, di fronte a questa pesante e violenta reazione che fortunatamente è stata ricomposta.
Il Ministero della Giustizia ha annunciato la fornitura di centomila mascherine per fronteggiare l’emergenza e per consentire una più rapida ripresa dei colloqui dei detenuti con i loro familiari. Una notizia da leggere positivamente?
Non riesco a dare un giudizio pieno, credo che abbiano la loro pertinenza. Sperimento ogni giorno che la realtà del carcere sia tale per cui le condizioni ordinarie sono spesso al limite. Il carcere di San Vittore è particolare perché è un istituto di pena giudiziario, per cui le persone sono all’inizio del loro percorso. Spesso si incontrano fragilità molto marcate di persone che hanno bisogno di stabilità dopo aver affrontato un processo. Qui le indagini sono appena avviate, la persona è appena arrivata, non ha contatti con la sua famiglia di origine e lo stato di ansia che percepisce è ancor più acuito dalle sommarie informazioni che riceve sulla situazione esterna, fatta di un’emergenza sanitaria per un virus sconosciuto che sembra non finire mai. Per chi si affaccia alla realtà carceraria, tutto questo diventa destabilizzante. Soprattutto se non si è abituati al carcere. Certamente l’arrivo delle mascherine permetterà qualche garanzia in più. Posso aggiungere che a San Vittore tutte queste scelte, decisamente faticose, sono state presentate alle commissioni dei detenuti di ogni singolo reparto, spiegando le motivazioni per tutela della salute dei detenuti, ma anche dei familiari.