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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Milano

L’Arcivescovo allo Iulm: «La speranza, una strada praticabile»

All’ateneo un dialogo a porte chiuse con alcuni docenti e studenti sul tema «Oltre il confine: identità, conflitti, cultura dell’incontro»

di Annamaria BRACCINI

6 Marzo 2020

«Doveva essere un incontro aperto, ma abbiamo deciso che, in questo momento, per dominare il senso di inquietudine, incertezza, insicurezza, occorre continuare a fare il nostro lavoro. Le Università sono luoghi dove la riflessione, il confronto e il dialogo prevalgono sulla paura». Il rettore dello Iulm, Gianni Canova apre così il dialogo tra l’Arcivescovo e alcuni docenti e studenti dell’ateneo, che si svolge a porte chiuse ed è diffuso in streaming. Tema dell’incontro, «Oltre il confine: identità, conflitti, cultura dell’incontro», perché la parola «confine» è Word of the Year 2020 dell’Ateneo.

Guido Formigoni, ordinario di Storia contemporanea dello Iulm, richiama il Discorso alla Città del 2018, «Autorizzati a pensare», e sottolinea appunto il significato del confine «come esperienza umana complessa, che marca un’identità personale o collettiva, ma anche una realtà che permette scambio e riconoscimento reciproco. Confine anche tra interiorità ed esteriorità, che proprio la vicenda del Coronavirus ci costringe a ripensare».

Chiesa e globalizzazione

Quattro le domande poste all’Arcivescovo. Il docente di epistemologia Mauro Ceruti, in collegamento skype, fa riferimento all’«interdipendenza planetaria, divenuta sempre più forte, facendo sentire la necessità di inventare la parola nuova “globalizzazione”, anche per il big bang del processo migratorio». Da qui due conseguenze: l’acuirsi della secolarizzazione e un allentamento delle relazioni sociali. «Quali opportunità e difficoltà vive la Chiesa ambrosiana all’interno della nostra città con i suoi nuovi confini?»

«È una domanda complessa – osserva l’Arcivescovo – perché complesso è il fenomeno religioso. L’originalità cristiana, in certo modo, contesta l’identificazione del Cristianesimo come religione, perché è una fede. Questo significa che è la risposta a una promessa, non una dottrina, ma l’esistenza di una via di salvezza che consiste nell’aderire a Gesù. È un modo di intendere la vita offerto a tutti i popoli della terra che non ha confine culturale o etnico. La Chiesa ambrosiana, con questa consapevolezza, ha promosso il Sinodo “Chiesa dalle Genti”, chiedendosi come essa sarà nel futuro, con la pluralità di nuove tradizioni cattoliche che si intrecciano al suo interno. Ciò che ci unisce non è la cultura, ma è la fede: la Chiesa è cattolica perché tutti coloro che credono possono farne parte. Questo rende la Chiesa non una cittadella chiusa, perché la storia è il tempo per compiere la propria missione e la terra è il luogo dove seminare il Vangelo. In questo la Chiesa di Milano sottolinea che la città è il luogo dove tutti abitano di diritto e contribuiscono alla sua costruzione». Il pensiero va al Consiglio ecumenico delle Chiese, «dove le diverse confessioni cristiane si incontrano e ragionano insieme» e al «Forum delle Religioni come tavolo dove le religioni si confrontano, appunto, per edificare la città». «Mi pare che la Chiesa ambrosiana sia unita e che, quindi, possa promuovere unità», aggiunge. Due i pericoli, semmai, che la Chiesa attraversa «perché molto presenti nella cultura-ambiente. L’idea dominante, nel nostro mondo, di essere condannati a morte, mentre il cristianesimo annuncia la risurrezione. Occorre esortare a ritrovare la speranza. Inoltre, l’idea che il comportamento personale possa fare a meno di Dio e che la vita non sia una vocazione, ma un trovare sistemazioni…».

Chi usa i media?

Chiara, studentessa, affronta la questione della comunicazione: «Come è cambiata l’interpretazione del reale, personale e collettivo, in relazione a ciò che si vede e si legge online? Qual è il confine che rende le realtà digitali un rischio o un’opportunità?».

“La parola media – riflette il Vescovo – veniva tradotta un tempo come strumento della comunicazione. Bisogna allora domandarsi chi usi tali strumenti. Se li usano i mercanti, che hanno prodotti da vendere, il confine saranno il mercato e il consumo; se li usano i ricercatori, si può pensare a un aiuto a rendere più corale la ricerca. L’aspetto virtuale può essere utile, così come la relazione a distanza può essere buona o meno. La Chiesa, pur usando i mezzi, ritiene che tale comunicazione a distanza non possa sostituire l’incontro in comunità dove si celebra l’Eucaristia».

La sensazione è che «lo strumento che usiamo può usarci, ma la domanda di fondo è: da chi è usato l’insieme dei media?». Evidente la risposta: «Dai media stessi, dal sistema che si ingigantisce rendendosi indispensabile. Dipendiamo dagli strumenti della comunicazione che fanno pensare che la conoscenza si riduca all’informazione. Il pericolo è che i media creino dipendenza, come vediamo in questi giorni. Ciò comporta la necessità di un percorso di liberazione».

Il legame tra le generazioni

Enzo Cartaregia, studente, evidenzia «la relazione intergenerazionale, una dinamica importante e tra le meno dette nel dibattito politico e culturale. Come vede i confini nel futuro rispetto al tema?».

«Per la tradizione cristiana, che mi ha generato – risponde l’Arcivescovo -, credo che la questione decisiva sia se dobbiamo pensare all’individuo o alla famiglia come principio generatore della società. La famiglia è il luogo in cui si concretizza il legame tra le generazioni. Pensiamo ai nonni, che oggi sono una risorsa affettiva ed economica, anche se i giovani non ricorrono agli adulti per chiedere quale sia il senso della vita. Questo crea una cesura. La mentalità corrente pensa che la società sia formata da una serie di individui e questo pone dei confini. La crisi demografica, per esempio, più che un conflitto tra generazioni, nasce da una contrapposizione tra interessi. Il vero rimedio al conflitto interpersonale e tra generazioni è la famiglia, bene comune di tutta la società».

Muri e riconciliazione

Massimo De Giuseppe, docente di Storia contemporanea, studioso delle migrazioni e dei Paesi centroamericani, approfondisce la questione della «guerra mondiale a pezzi – come l’ha definita papa Francesco – con alcune falde sismiche, come per esempio la Siria, ma anche con la presenza di situazioni che non si considerano di guerra vera e propria. Il muro simbolico di Lesbo e il muro di Trump si intrecciano oggi con i confini statuali. Cosa possono fare la Chiesa e le religioni in un processo di ridefinizione dei confini, promuovendo dinamiche di riconciliazione?».

«Abbiamo esempi virtuosi nella mediazione della Chiesa e nella diplomazia vaticana. La Chiesa cattolica interpreta la sua missione come riconciliazione, secondo la visione cristiana che la guerra sia un’assurdità, seppure molto diffusa e che ha segnato storia dell’umanità. Il riferimento a Dio è un incoraggiamento alla pace, come indica il Papa. Mettere pace è una sfida asimmetrica: la Chiesa che ne è consapevole, usa parole e chi fa guerra ha le armi. Dobbiamo seminare speranza e “metterci in mezzo” per dire che crediamo possibile una fraternità universale, amando anche i nemici e quelli che ci fanno del male. Questa presenza inerme è il principio reale di una seminagione di pace. In ogni parte della terra ci sono uomini e donne di buona volontà e il futuro dipende da queste persone che testimoniano che la speranza è una strada praticabile».