«Siamo qui oggi per riconoscere, in don Carlo San Martino, un prete che non si è rassegnato ai problemi del suo tempo, che non ha detto “io non c’entro”, che ha cancellato le parole sbagliate e ha contribuito a scrivere una storia di fiducia, di sollecitudine per i poveri, di dedizione per il futuro di bambini trascurati e abbandonati, esposti al rischio di diventare vite perdute».
È affollatissima la Basilica dei Santi Apostoli e San Nazaro Maggiore per la celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo che chiude l’Anno sanmartiniano, a cento anni esatti dalla scomparsa di questo coraggioso e preveggente sacerdote ambrosiano, morto il 14 novembre 1919 e sepolto in questa stessa chiesa, dove fu coadiutore dal 1872 al 1891.
Apostolo dell’infanzia
Nato a Milano il 17 marzo 1844, don San Martino fu un apostolo dell’infanzia più povera. Un uomo che seppe affrontare i problemi della sua epoca, non solo con fede e carità, ma anche con specifiche conoscenze maturate allorché, su incarico del Governo italiano, visitò riformatori e strutture in tutta Italia, arrivando poi anche a Parigi e a Londra per rendersi conto di come venisse gestita all’estero la tutela e la cura dei bambini. Da qui la decisione di avviare, il 20 febbraio 1885, il Pio Istituto pei Figli della Provvidenza, dove vennero accolti i primi dodici ragazzi. Un anno dopo gli ospiti erano già più di 50 e, nel maggio 1896, vide la luce l’Associazione nazionale per la difesa della fanciullezza abbandonata. Dal suo carisma nacque anche la Congregazione delle Ancelle della Provvidenza. Oggi le strutture educative legate a don Carlo sono divenute scuole paritarie, dall’infanzia alla secondaria di primo grado, in tre sedi: Milano, Besana Brianza (Rigola) e Montano Lucino (Como).
Proprio la figura sacerdotale ed educativa di don San Martino e ciò che ne è sorto, si fanno concretamente presenti nella Basilica, con i bambini, i ragazzi, gli insegnanti, i genitori, i dirigenti delle scuole e i sacerdoti che concelebrano: tra loro, monsignor Luigi Stucchi, vicario episcopale per la Vita Consacrata Femminile, don Tarcisio Bove, componente del Comitato permanente del Pio Istituto, don Ettore Colombo, responsabile della Comunità pastorale Santi Apostoli, don Mauro Malighetti, responsabile della Comunità pastorale Santa Caterina di Besana Brianza e altri presbiteri legati ai luoghi dell’opera sanmartiniana.
Non mancano le autorità civili, con l’assessore Marco Granelli in rappresentanza del Sindaco di Milano, un rappresentante del Sindaco di Besana e il Sindaco di Montano Lucino. Un semplice alberello di cartone, a lato dell’altare maggiore, rappresenta i frutti dell’intuizione di don Carlo, con tante foglioline tra le quali quelle presentate come doni all’Offertorio.
L’omelia dell’Arcivescovo
«Ci sono parole che i cristiani non possono usare e dovreste cancellare dal vocabolario», inizia l’Arcivescovo rivolgendosi direttamente ai ragazzi. Come la parola «ormai», che indica la rassegnazione e l’atteggiamento di chi legge il suo tempo e la sua situazione come un destino già segnato: «Registra alcuni dati e li considera irreversibili; interpreta la storia come un declino inarrestabile, dichiarando la sua impotenza».
Si dovrebbe cancellare anche l’espressione «una volta sì», parola della nostalgia di chi dice che solo nel passato le cose andavano bene. E, ancora, occorrerebbe eliminare quell’«io non c’entro» che è dichiarazione dell’indifferenza da parte di coloro che, «se ricevono notizie di disgrazie, disastri, problemi, restano imperturbabili; di chi, incontrando una situazione o una persona che chiede un aiuto, passa oltre».
Al contrario, «i discepoli vivono la storia come un’attesa e una speranza. Lo sguardo sul futuro non è un’aspettativa fondata sulle previsioni, ma è illuminato dalla speranza fondata sulle promesse di Dio: asciugare le lacrime, rinnovare il cielo e la terra, edificare una nuova città. Coloro che vivono la storia come tempo della speranza e come un pellegrinaggio sono volonterosi e generosi. Si dichiarano disponibili per collaborare con l’opera di Dio, sentono la responsabilità di mettere a frutto i talenti che hanno ricevuto, sapendo che devono renderne conto. Di fronte al gemito dei fratelli, alle disgrazie che sprofondano nella tribolazione uomini, donne e popoli interi, si fanno avanti e dicono: “Io c’entro, ci sono anch’io”».
Come appunto fece don Carlo San Martino, “papà don Carlo” come viene definito (e il pensiero non può che andare a don Carlo Gnocchi): «Noi non siamo qui per dire un ricordo e una gratitudine, ma per dire che c’entriamo, per collaborare all’opera di Dio. Ci sentiamo impegnati a porre questi segni, asciugando ogni lacrima, incoraggiando ogni cammino, testimoniando la speranza cristiana con l’irradiazione della gioia. Siamo vicini a don Carlo e ai frutti che la sua opera continua a produrre».
Alla fine della Messa, ancora un pensiero: «Dio è alleato per il bene, la nostra vita è benedetta e, per questo, possiamo essere benedizione per coloro che incontriamo». Infine la preghiera, prima dell’Arcivescovo, e poi di tutti i fedeli davanti alla tomba di don San Martino.