Nel corso del XXI secolo, l’influenza delle grandi aziende tecnologiche sul discorso politico, nelle democrazie e nei Paesi autoritari, ha acceso dubbi e tormenti. Le piattaforme social media – Facebook (Meta), X (Twitter), Google, Instagram, YouTube, Amazon, WhatsApp – sono diventate arena di impegno politico, plasmando l’opinione pubblica, amplificando voci negative, nutrite dalla smania di click degli algoritmi, influenzando elezioni fino alla débâcle in Romania, scambiata come scelta scorretta dagli analisti d’antan, ignari della realtà. Gli Stati Uniti sono stati al centro di questa ondata, con il presidente Donald Trump arbitro del match tra libertà di espressione, controllo aziendale tech ed estremismo.
La convergenza tra potere e social media solleva interrogativi drammatici: fino a che punto le aziende private possono regolamentare il discorso politico? In che modo il loro controllo modella le culture politiche dominanti? E, ancor più cruciale, le piattaforme minacciano i principi democratici che si piccano di difendere? Bastano le norme europee, Digital service act, AI Act, Media freedom act o sono illusione nel maelstrom (vortice, ndr) dell’infosfera?
Le aziende dei social media esercitano un controllo senza precedenti sul flusso di informazioni. A differenza dei media tradizionali, soggetti a standard professionali e regole, i colossi tecnologici operano con norme autoimposte, decisioni opache sui contenuti da ospitare o rimuovere, negando l’accesso ai dati che permetterebbe ai ricercatori – vedi l’Italian digital media observatory affiliato all’Unione europea – di tracciare i percorsi delle false notizie.
Durante la prima presidenza Trump (2017-2021), Twitter ridefinì l’interazione fra leader ed elettori, bypassando i media tradizionali, tutti ostili al tycoon repubblicano, perfino agli inizi la rete Fox e il Wall Street Journal, comunicando vis-à-vis con milioni di seguaci, non filtrando disinformazione, teorie del complotto, retorica incendiaria.
Tuttavia, le piattaforme giocano un ruolo anche nella caduta di Trump. Dopo l’attacco al Campidoglio del 2021, Twitter, Facebook e altre piattaforme mettono al bando il presidente, accusato di fomentare le proteste. La decisione divide, misura che previene violenze o censura? Molti celebrano la rimozione di Trump come una vittoria, altri la deprecano come diktat tecnologico, se un pugno di società silenzia un presidente, cosa resta delle idee?
I brand social media rimuovono o limitano regolarmente i contenuti che ritengono dannosi, con regole incoerenti e orientate ad arte. Durante le elezioni Usa 2020, Facebook e Twitter hanno preso misure per limitare la diffusione della disinformazione, mentre le piattaforme populiste, Truth social e Rumble, si atteggiavano a paladine della libertà di espressione, pur fungendo da cassa di risonanza degli estremisti.

La risposta alla cacciata di Trump dai social media ha lasciato il segno. Figure della destra hanno abbracciato piattaforme alternative e l’arrivo in Twitter di Elon Musk (2022) cancella i filtri alle false notizie, con algoritmi a favorire le opinioni sovraniste. La vittoria di Trump su Kamala Harris, nel 2024, induce gli altri marchi digitali ad allinearsi in fretta, dimettendo ogni fact checking e chiedendo burbanzosi all’Europa di eliminare le regole a social e Intelligenza artificiale.
La polarizzazione online frantuma quella che lo studioso Jurgen Habermas chiamava «opinione pubblica critica», perché, sterilizzando il confronto, i social media creano una dimensione di rabbia e solitudine in cui il compromesso democratico vale un tradimento. Gli algoritmi social – progettati per massimizzare i profitti – danno priorità a contenuti sensazionalistici e divisivi, avvantaggiando i populisti ed erodendo le istituzioni democratiche. In Italia anche i siti delle testate mainstream, a caccia di click, lanciano contenuti grotteschi in homepage, perdendo in fretta prestigio e credibilità che sarà arduo recuperare.
Le soluzioni potenziali alla crisi in corso sono complesse e controverse. L’Europa invoca la regolamentazione governativa, misure antitrust severe, trasparenza nella moderazione dei contenuti. Negli Usa si propone di riformare la Sezione 230 del Communications decency act, datata 1934, che assolve le piattaforme dalla responsabilità per i contenuti generati dagli utenti.
Qualsiasi intervento ha rischi, la regolamentazione governativa del discorso online induce censura e manipolazione, al tempo stesso affidarsi alle aziende implica incoerenze e distorsioni. La sfida è un equilibrio che preservi la libertà di espressione, bloccando le informazioni dannose: ma come generarlo? L’esito di questa battaglia avrà implicazioni esistenziali per la democrazia, negli Stati Uniti e da noi, mentre in Russia, Cina e nei regimi autoritari, i social media sono solo sofisticati strumenti di repressione.
Non si tratta di rimpiangere il passato, anche allora bugie e smania di potere dominavano le élite, si tratta di accettare che i principi illuminati del XVIII secolo sono oggi imbelli, come una parrucca incipriata oggi, e che le forze di giustizia e libertà devono ingaggiare una lotta senza quartiere contro l’odio online, assetato di profitti e mascherato da ribelle.