«Credo che dobbiamo parlare più di qualità della vita che del fine vita. Questi sono temi, che si aggrovigliano intorno alla scelta della persona, all’organizzazione del servizio sanitario, alla punibilità del suicidio assistito e di chi assiste nel suicidio, sono troppo complessi per essere affrontati con il clamore di un dibattito superficiale o con una scelta di una parte delle persone che non diventi, poi, una visione condivisa. Io preferisco affermare quello che la Chiesa ha sempre detto, ossia che il dolore va combattuto, che le risorse della scienza vanno messe a servizio della qualità buona della vita e non della sua soppressione». È questa la convinzione dell’Arcivescovo che, a margine della celebrazione per il Giubileo diocesano dei malati e degli operatori sanitari, da lui presieduto sabato 15 febbraio in un Duomo gremito di tanti sofferenti e volontari provenienti da tutta la Diocesi, ha riflettuto, appunto, sulla questione del fine vita. In un momento in cui il dibattito pubblico è tornato a farsi rovente dopo la notizia del primo caso di suicidio assistito in Lombardia e le polemiche relative al varo di una legge della regione Toscana sulla questione.
«Celebriamo il Giubileo del Malato perché davvero abbiamo bisogno di un cuore puro e buono, docile e attento». È l’indicazione contenuta nell’omelia di mons. Mario Delpini. A pochi giorni dalla Giornata mondiale (11 febbraio), la Cattedrale ha accolto centinaia di malati e operatori sanitari per la celebrazione giubilare: una giornata dedicata a chi vive la sfida della malattia e a chi si prende cura dei più fragili. «Un evento di Chiesa, di grazia e di speranza», l’aveva presentato don Paolo Fontana, responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale della salute, con un riferimento al tema del Giubileo poi richiamato nel suo saluto introduttivo: «Vogliamo vivere la speranza, vogliamo essere pellegrini di speranza».
L’Arcivescovo ha risposto dicendosi «pieno di ammirazione» e ringraziando tutti coloro che hanno contribuito alla giornata, dall’organizzazione al trasporto dei malati: cappellani, preti, diaconi, medici, infermieri e volontari delle diverse associazioni (tra le quali erano presenti in Duomo le rappresentanze di Unitalsi e Oftal). «Questa convocazione – ha sottolineato – rivela l’attrattiva della grazia e il desiderio della nostra risposta».
La mattinata ha avuto inizio con la meditazione del Rosario con i Misteri della Gioia. A guidare la preghiera mariana è stato Cesare Bidinotto, diacono permanente dal 2005, impegnato nel Presidio ospedaliero Corberi dedicato alla riabilitazione di persone con patologie neuropsichiatriche.
L’omelia dell’Arcivescovo (qui il testo integrale) ha preso le mosse da una serie di domande, che «non possiamo evitare». Domande che si pongono persone sane e malate, chi assiste e chi invece sta lontano, giovani e vecchi, chi vede i propri cari invecchiare, ammalarsi, morire… Domande, a seconda dei casi, «arrabbiate e devote»: «Che cosa mi è capitato? Che cosa sarà di me? Chi mi può guarire? In quale parte del mondo esiste una medicina adatta a me?». E ancora: «Che cosa c’è nel cuore umano?». Cose «terribili» di cui parla San Paolo nella Lettera ai Galati, riferendosi a comportamenti umani malvagi e dissoluti. «Perché ci sono persone così cattive, indifferenti, violente?», si è interrogato l’Arcivescovo.
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E dove sono le risposte a questi quesiti? C’è chi non se le aspetta e si rassegna di fronte a «un enigma incomprensibile e spaventoso», preferendo «cercare distrazioni» e «non pensarci troppo». C’è chi invece le cerca nella sapienza dei popoli: «Antichi miti, ragionamenti complicati, discussioni interessanti e forse inconcludenti…», ha notato monsignor Delpini. E c’è chi, infine, le cerca «provocando Dio», invocando «con devozione» o pretendendo «con rabbia che si levi di mezzo dai pensieri e dai discorsi dell’umanità, se non ha risposte per le domande difficili».
La realtà è che Gesù «non ha risposte pronte», ma «promette il dono dello Spirito che guida alla verità». Lo Spirito aiuta a percorrere la strada «che porta rivelazione che avvolge di luce tutta la vita, le domande e le situazioni». Allora, se «la verità tutta intera è Gesù e la sua gloria», il male operato dall’uomo e che aggredisce la vita di uomini e donne «non ha una spiegazione, ma è il deserto da attraversare per arrivare alla terra promessa». Richiamando un concetto al centro della sua Proposta pastorale 2019-2020, l’Arcivescovo ha sottolineato: «Non so perché io soffro, sono malato, cieco, paralitico, so però che questa mia situazione è occasione… Non so perché tu sei aggressivo, ingiusto, violento, corrotto, ma so che l’incontro con te è per me occasione. Ogni situazione è occasione perché sempre lo Spirito può far crescere i suoi frutti».
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«Ricevere lo Spirito di Dio e trovare la via che porta alla gioia mentre attraversiamo il terribile deserto che è talora la vita»: questo il fulcro della celebrazione giubilare. Lo Spirito «che Gesù ci invia per essere pellegrini della speranza» e di cui abbiamo bisogno «per deporre la rabbia e trovare pace, per vincere l’egoismo e praticare l’amore, per liberarci dallo scoraggiamento e ricevere la promessa che suscita la speranza». Lo Spirito che aiuta ad amare anche in situazioni in cui non si può capire.
Al termine della celebrazione, rinnovando il suo ringraziamento a quanti hanno collaborato a «un momento così intenso», l’Arcivescovo ha aggiunto: «L’evento giubilare rende sereno il cuore e fiducioso lo sguardo verso il futuro. Noi l’abbiamo celebrato qui, con i nostri Santi e i nostri Vescovi, dentro una grazia che ci salva». E la solenne benedizione conclusiva, «perché tutti siate sempre disposti e capaci di amare. In un giorno di sole come questo, forse è più facile sentirsi benedetti da Dio. Ma io vi benedico perché abbiate questa certezza sempre, anche nei giorni in cui è più difficile sorridere e amare».