Raggiungiamo Maura Delpero in una rara ora libera durante la lunga campagna promozionale del film Vermiglio (Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia) in corsa agli Oscar (è nella quindicina tra cui verrà scelta la cinquina per la statuetta 2025 al miglior film internazionale). In meno di sei mesi, infatti, Delpero si è trasformata da autrice apprezzata dalla critica, ma poco conosciuta fuori dal circuito festivaliero, a regista capace di intercettare un vasto pubblico, addirittura oltreoceano.
La sua è un’opera che racconta come eravamo con uno stile realistico, vicino a quello di Ermanno Olmi. Un anno (1944-1945) nella vita del paese di Vermiglio, visto attraverso gli occhi di un maestro e delle sue tre figlie. Non solo. Il film è una storia privata, che nasce dopo un incontro in sogno tra la regista e suo padre, da poco mancato. «Nella scrittura di questo film sono partita da un lutto personale e dalla mia sensazione di assistere alla fine di un mondo antico. Mi sono interrogata molto sulla sua storia. Temevo che fosse una materia troppo personale», dice ragionando su come promuovere all’estero una storia così legata alle radici italiane. «Perciò ho fatto leggere la sceneggiatura a colleghi internazionali. Abbiamo capito dove trovare il cosiddetto “particolare universale” che permettesse a Vermiglio di essere un film di tutti. Amo lavorare con le stratificazioni, quindi volevo dare a queste piccole storie i diversi livelli di lettura che solo il cinema permette».
Vermiglio parte così da una microstoria, dalle piccole esistenze di chi ha vissuto prendendo decisioni importanti per tutto il paese, dando il proprio contributo alla maturazione sociale, senza però entrare nei libri di storia. È qui che Delpero vuole incontrare gli spettatori di qualsiasi cultura: negli spazi vuoti del racconto, nei non detti e nei puntini di sospensione, dove l’esperienza personale di ciascuno può entrare e rivedersi. I drammi del film, ma anche i piccoli gesti di tenerezza, non hanno confini. «Lucia, innamorata, la primogenita protagonista, attende una lettera che non arriva. In questo non è tanto differente da una ragazza di oggi che aspetta un messaggio su WhatsApp che non arriva».
Maura Delpero – che ha esordito nel cinema di finzione con Maternal dopo avere lavorato molto nel documentario – è da sempre attratta dall’ordinario. Con Vermiglio, in particolare, le interessava mostrare il ritmo delle stagioni di persone ordinarie e il loro senso di umile accettazione di ciò che accade. Eppure, spiega, queste persone sono al contempo capaci di imprese straordinarie anche se, a volte, sembrano non rendersene conto. Gente che torna dalla guerra, che sopravvive nella povertà, ma mantiene quel tono sommesso, quell’anti-eroismo tipico della loro classe sociale di appartenenza.
Le tre figlie del maestro Cesare Graziadei, Lucia, Ada e Flavia, non sono donne tanto distanti dalle donne dell’Est Europa, raccontate in un suo precedente lavoro: «Feci un documentario su chi parte, lasciando averi e affetti, per cercare la propria fortuna in un altro Paese. Per me questi sono racconti di vita epici che esprimono una straordinaria umanità proprio nel confrontarsi con i limiti. Così anche la decisione presa da Lucia di lasciare casa e partire è uno strappo fortissimo».