Il Giubileo ritorna nella nostra vita con un ritmo preciso: ogni 25 anni. Ha mai lasciato traccia nelle nostre scelte? Ha mai sollecitato uno sguardo nuovo che non sia solo quello di una celebrazione in cui si apre una porta e, spalancandosi, offre tempo e spazio da conoscere e interpretare? Dovremmo prenderci un’onesta pausa, realmente, come sottolinea il Pastore della nostra Diocesi: siamo stanchi.
Pausa però che non significa sdraiarsi sul divano e lasciar scorrere le serie televisive della settimana.
Pausa, per chi vuole lasciarsi cogliere dal mistero della grazia e poterlo assaporare, significa fermarsi, porsi in ascolto della Parola, riflettere e decidere.
Non è un sogno cui affidarsi. Dove sogno indichi un sentire desiderante, troppo poco e nulla come spinta personale. Ben altro viene chiesto a chi voglia che il suo cuore – centro decisionale della persona per la tradizione biblica – possa sintonizzarsi con il progetto del Creatore: «Il Giubileo segna il tempo e invita a una pausa nel nostro “fare” che è come costretto da un ingranaggio fatale. Una pausa in cui potersi porre le domande “economiche” veramente essenziali: che cosa ho ricevuto? Che ne ho fatto? Che cosa ho generato?».
Dall’ingranaggio fatale si esce se la rivoluzione sociale si propone di costruire parametri più accettabili. L’ingranaggio fatale, però, può essere vissuto diversamente: «Occorre un punto di vista più alto, di tipo culturale e spirituale, capace di abbracciare i vari aspetti che sono contemporaneamente in gioco. Ciò sarà possibile operando tutti insieme attraverso uno sguardo “contemplativo”, l’unico in grado di imprimere alla realtà umana, sociale, politica ed economica una direzione che componga aspetti vitali che da soli si presentano in termini conflittuali».
Lo sguardo contemplativo richiede lavoro e fatica, ma esclude la frenesia. Non chiede esiti spettacolari, iniziative smaglianti. Il Signore chiede solo di tentare, cioè di fare del nostro meglio, consegnando a Lui i pochi passi mossi, i traguardi magari invisibili allo sguardo commerciale e competitivo. Il nostro sguardo allora possederà una potenza formidabile perché canale di trasmissione dello sguardo dell’amore trinitario.
Non si tratta di pie espressioni, ma di un canale che fa irrompere una novità, un fremito che crea relazioni, legami e attenzioni che non puzzano di ricchezze maledette, ma rimandano al profumo della grazia, della Parola che scende nel cuore in ascolto e lo inonda. Cambierà qualche cosa? Di certo non negli Annali dei Guiness, ma nella modalità del nostro essere profondo.
Ecco allora rimbalzare le tre domande del nostro Pastore: «Che cosa ho ricevuto?». La vita come dono che può seminare nella terra e sulla terra quel seme che profuma di amore, di carità, di riconoscenza a quell’Amore gratuito che è talmente gratuito da squadernare totalmente il regime di amore che in noi si è introiettato. Può spazzare tutto quanto è sordido, fangoso e lasciar sgorgare la lode all’Altissimo che, malgrado le nostre continue resistenze e fallimenti, ci rimane al fianco con la sua indefettibile fedeltà.
«Che ne ho fatto?»: ho accumulato, oppure ho donato? Ho condiviso il mio “fare” e lo ho radicato in un’apertura all’Altissimo che ricade come rugiada su chi, come me, è pellegrino? Tempi duri i nostri. Indubbio. Quando mai però non lo sono stati? Chi ha lasciato traccia del “fare”? Chi si è speso per il bene e ha rifiutato tutto quanto è maledetto. Chi non ha lo sguardo chino sui propri interessi, ma lo alza e si lascia interrogare.
«Che cosa ho generato?»: pace o guerra? Armi o soccorsi? Bontà o cattiveria? Il confine fra quanto è benedetto e maledetto è evidente, anche se in molti casi si maschera perché la ricchezza e il pregio sociale sono un mantello coprente. Ho dato un senso a tutto me stesso? Anche se gli altri nulla vedono o comprendono, la grazia li contagiati e li muta.
Lo sguardo contemplativo possa essere il dono del Giubileo: ascolto della Parola, gioia della condivisione, lode all’Altissimo di tutti noi insieme.