Sono trascorsi quarant’anni dall’identificazione certa del virus dell’Hiv come causa dell’Aids, e grazie alle terapie oggi disponibili quella che alla fine dello scorso millennio era una vera e propria emergenza ora è nella grande maggioranza dei casi trattabile come una malattia cronica. Ma questa nuova normalità non può certamente far dimenticare le situazioni più gravi. Quelle di chi necessita non solo di una terapia ma anche di una vera e propria accoglienza in un ambiente protetto e allo stesso tempo famigliare, dove poter superare la fase più acuta della malattia, in molti casi, oppure essere assistito pur in una situazione cronica e debilitante, come avviene con tutti i malati.
È la missione che continuano a svolgere le Case-alloggio per persone con Hiv/Aids: nate alla fine degli anni Ottanta per accogliere i casi più gravi, in quello che allora era quasi sempre un accompagnamento dignitoso e amorevole alla morte, oggi continuano l’accoglienza dei malati più fragili, in un percorso che è fortunatamente sempre più di ritorno alla vita di tutti i giorni. All’aspetto strettamente terapeutico si affiancano quindi, anche per le case-alloggio, tutte le attenzioni volte al reinserimento sociale degli ospiti.
A ricordare il prezioso lavoro svolto dalle case-alloggio è Elisa Robbiati, coordinatrice del Centro “Teresa Gabrieli”, una delle due strutture gestite dalle cooperative legate a Caritas ambrosiana: «Il biglietto da visita di chi è accolto è l’Aids. Ma se nella vita di tutti i giorni chi ha contratto il virus dell’Hiv può essere un manager, un padre di famiglia, nei nostri casi chi arriva da noi ha uno “zaino” pieno di altre problematiche».
Non c’è, sottolinea Robbiati, un’unica tipologia di ospite. Le dieci persone ospitate (l’ingresso è sempre su base volontaria) hanno età, origini e trascorsi differenti: c’è chi è senza fissa dimora, chi ha un passato di prostituzione o di tossicodipendenza, e sono in aumento i casi in cui alla malattia si somma il disagio psichico. Molti, comunque, sono accomunati dal non avere una rete di supporto esterno. È differente anche il percorso terapeutico, che di norma dura due anni: «Uno dei nostri ospiti ha un’emiparesi, e il danno neurologico subito non consente il recupero completo. Per lui, quindi, la riabilitazione consiste nell’imparare a gestire al meglio gli arti che è in grado di muovere, riuscendo per esempio a mangiare da solo. Un’ospite, invece, arrivata da noi quasi allettata, con le giuste terapie cammina ora autonomamente, e per la prospettiva è la ripresa del lavoro». Robbiati ricorda infatti che l’infezione può agire in modo subdolo, rimanendo silente anche per un lungo periodo prima di degenerare, se non riconosciuta, in una condizione debilitante.
Per questo la responsabile sottolinea l’importanza delle campagne di sensibilizzazione e di prevenzione, paradossalmente proprio in questi anni in cui, con lo spegnersi dell’emergenza, c’è anche una minore consapevolezza sociale dei rischi, non solo legati all’Hiv, ma a tutte le malattie sessualmente trasmissibili. L’aumento delle diagnosi di Hiv nel 2023 (2349 nuovi casi, rispetto ai 2140 del 2022) è infatti collegabile al minore numero di screening nel periodo del Covid.
Ora sono rari i casi in cui il periodo dell’accoglienza coincide anche con un accompagnamento alla morte. Ma ciò che non cambia è uno stile di accoglienza realmente famigliare, a partire per esempio dal cucinare insieme agli ospiti. «Sono infatti gli stessi malati a sentire su di sé lo stigma e a volte la vergogna per la malattia – ricorda Robbiati –, stupendosi positivamente, invece, quando ci rapportiamo con loro semplicemente come persone, e non come persone malate di Aids». La missione di queste piccole comunità, quindi, è ancora oggi insostituibile.