«Vivere sempre la propria vita. Un dialogo tra scienza, etica e cura»: si intitola così il convegno che si svolgerà mercoledì 27 novembre, dalle 17, presso l’Aula magna dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano, con la presenza dell’Arcivescovo e di molti qualificati relatori (vedi qui la locandina).
«Si tratta di un momento di riflessione legato al fine vita, che vuole introdurre un dibattito rispetto a una tematica così particolare di fronte alla quale oggi siamo tutti molto sensibili – sottolinea don Tullio Proserpio, cappellano dell’Ircss -. Diverse persone e competenze si confronteranno e dialogheranno con l’obiettivo di sviluppare un confronto e non una sorta di competizione, una lotta, per cercare di capire chi ha ragione e chi ha torto, come accade spesso su questo tema».
Chi promuove l’assise?
Di fatto l’idea parte dalla Cappellania allo scopo di creare questo dialogo. Poi ovviamente si sono coinvolti l’Istituto, la Pontificia Accademia per la Vita – parteciperà il suo presidente, monsignor Vincenzo Paglia – e la Fiaso (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere), con il sostegno di Regione Lombardia. L’evento sarà trasmesso in streaming. Per l’occasione verrà anche presentato il volume Piccolo lessico del Fine-Vita.
Perché la Cappellania ha voluto muoversi in questo senso?
Perché, evidentemente, facciamo parte della Chiesa e questo è tutt’altro che un dato secondario. Il nostro obiettivo è proprio quello di mostrare che la Chiesa è disponibile a dialogare su questioni anche complicate e particolari, nel momento in cui abbiamo la capacità di non ergerci sulle nostre presunte sicurezze, lasciando da parte i dogmi, da una parte come dall’altra, religiosi o meno, per arrivare a creare la possibilità di un dialogo autentico. Senza dimenticare la possibilità di riconoscere, in una posizione diversa rispetto alla nostra, qualcosa comunque di positivo per il bene della persona malata. È bello che questo dialogo avvenga all’interno dell’Istituto dove, al di là della teoria, si lavora sul campo.
Ormai le Cappellanie ospedaliere vengono considerate a tutti gli effetti membri dell’équipe terapeutica, accanto al malato. È riconosciuta questa convinzione?
Certamente a livello del nostro Istituto la risposta è positiva. Mi sento di dire che il merito è anche del rapporto di amicizia che si è creato con i vari “attori”: medici, infermieri, personale. La presenza dei Cappellani – la mia e quella di don Luciano Massari – è vista come importante e significativa, perché desideriamo sinceramente lavorare in équipe.
In questa logica sono stati promossi anche percorsi formativi. A che punto siamo?
Di formazione teorica ne abbiamo fin troppa, ma non possiamo contare su quel tipo di formazione oggi richiesta a livello internazionale. Esistono già organismi a livello non solo nazionale, ma europeo e internazionale (negli Stati Uniti per esempio), che forniscono informazioni su quale modello formativo sia necessario. Noi ne siamo ancora lontani. Promuoviamo corsi, ma non è sufficiente perché non si tratta di sapere solo dal punto di vista cognitivo, ma di imparare dal punto di vista esperienziale.