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Sirio 11 - 17 novembre 2024
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Incontro

Delpini: «La pace è una nostra responsabilità e un nostro programma di vita»

Nell’ambito di BookCity Milano 2024, l'Arcivescovo ha partecipato al dibattito con Milena Santerini, pedagogista e vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, e Marco Tarquinio, giornalista e parlamentare europeo

di Annamaria BRACCINI

16 Novembre 2024
Fotogramma

La pace che non si riesce più nemmeno a sperare, la pace che è diventata una parola impronunciabile scomoda e irritante. La pace che non esiste nei campi di battaglia famosi o dimenticati delle oltre 180 guerre che stanno insanguinando il mondo, ma nemmeno, troppo spesso, nei nostri cuori rassegnati.

Non è stato un panorama consolante quello che, nella Sala Ricci del Centro San Fedele, ha visto tanta gente riunita per uno degli eventi clou di BookCity Milano 2024, o meglio, l’appuntamento centrale di quella sezione della kermesse, definita “della Spiritualità”, promossa dai 7 editori cattolici partecipanti all’iniziativa – Àncora, Ares, Itl libri, Paoline, San Paolo Edizioni, TS Edizioni e Vita e Pensiero – che, per il secondo anno, hanno scelto di fare rete,

A confrontarsi, con la moderazione di Paolo Foglizzo di “Aggiornamenti Sociali”, l’Arcivescovo, Milena Santerini vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah e docente in “Cattolica” e Marco Tarquinio, già direttore del quotidiano “Avvenire” e oggi parlamentare europeo.
Aperta dal referente per il Coordinamento dei Centri Culturali Cattolici della Diocesi, don Gianluca Bernardini, la serata ha avuto il senso «chiedersi come sia possibile che qualcosa che, da sempre, è sinonimo di benedizione, la pace appunto, sia diventata scomoda», per usare le parole di Foglizzo.

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Un dovere cristiano schierarsi per la pace

«La parola pace non è solo scomoda, è diventata addirittura esecrabile o un capo di accusa. Dire che la guerra si combatte con la guerra va di moda. Ma perché bisogna contare migliaia e migliaia di morti per dire che la guerra non è una risposta inevitabile?», si è chiesto Tarquinio che ha ricordato come da questi interrogativi sia nato il suo impegno politico e il desiderio di candidarsi al Parlamento europeo. «A Strasburgo si sente dire che la guerra è la risposta ai cattivi che, però, sono sempre gli altri. Ma i “cattivi” sono da tutte le parti, basti pensare che i russi e gli ucraini hanno usato le stesse armi a grappolo messe al bando grazie all’impegno di tante associazioni. Io credo – ha proseguito il giornalista – che siamo giunti a un punto di svolta scomodo perché chi potrebbe fare la pace in Ucraina è lo stesso che potrebbe scatenare per sempre la guerra in Terra Santa, uno come Trump. Se si è in disaccordo non si può farsi da parte, bisogna testimoniarlo, non è possibile che l’Europa, che è pace, diventi un’agente di guerra. Abbiamo questo dovere oggi, specie noi come cristiani: offrire un “di più” d’amore».

Cambiare il mondo irrita

«Per molte persone la pace non è affatto scomoda, anzi è un bisogno urgente, come per gli Ucraini invasi da Putin o i Siriani in fuga, mentre non lo è per la nostra società europea e italiana che, dopo 80 anni, si trova a mettere in discussione qualcosa che pensavamo inamovibile come la cultura della pace. La pace è scomoda per le politiche dell’odio specie di casa nostra. I nostri politici dovrebbero seguire la Costituzione che, all’articolo 11, ripudia la guerra, ma alcuni lavorano contro», ha sottolineato, da parte sua, Santerini. «Con il tempo si è indebolita la memoria della guerra, ma i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki hanno lasciato un messaggio che non possiamo dimenticare: “Nessuno deve soffrire come noi” ed è lo stesso messaggio di Liliana Segre quando afferma che non pensava di rivedere quello che sta accadendo con l’antisemitismo dilagante».

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«Gli ideali oggi sono irritanti, velleitari – si dice che le persone normali non sperano -, cambiare il mondo irrita. Credo che le società siano come le persone: si ammalano o possono avere energie ricostruttive, come è accaduto dopo la II guerra mondiale. Ora siamo soffocati dalla paura, abbiamo tutto ma mai abbastanza e la società, diventata paranoica, crede che per risolvere un problema si debba identificare un nemico. Ma davvero possiamo consentire questo? Consentire che, nel 2023, vi siamo stati 250.000 morti per i conflitti, che l’Italia, abbia stanziato 30 miliardi nei prossimi 10 anni per le armi che vi siano 12.500 armi nucleari in circolazione? Non siamo più nel periodo della deterrenza e c’è il fondato timore che, con questi signori al potere che commercializzano la guerra, il mondo potrebbe non sopravvivere».

La preghiera, l’educazione, la profezia

A tante domande, spesso inespresse, ma che sono nel cuore dei cristiani, ha dato voce l’Arcivescovo che anche al tema del non restare muti davanti alla guerra ha dedicato alcune pagine nella sua Proposta pastorale per l’anno in corso, “Basta. L’amore che salva e il male insopportabile”, edita da Centro Ambrosiano-Itl Libri,e punto di partenza per l’incontro.
«Come si fa a parlare di pace, che è un seme, laddove è stato seminato tanto odio? Come si fa a dare informazioni in un contesto in cui la verità è irrilevante e la notizia è un arma? Come si fa a pregare per la pace in un contesto in cui Dio è stato escluso? Di fronte a questo panorama, come fa a tacere un Vescovo?».
E, infatti, il vescovo Delpini, certo, non tace, ma dice: «Abbiamo delle risorse, delle riserve, che mi piacerebbe venissero considerate e moltiplicate per rimediare alla lettura scoraggiante del presente. C’è la risorsa dell’educazione, di uno sguardo lungimirante che forma uomini e donne perché siano là dove servono per la pace. Abbiamo la risorsa della profezia perché, anche se i profeti sono scomodi, danno frutto dicendo la verità antipatica, così come papa Francesco che è profetico anche se la sua richiesta di pace può sembrare inutile. Abbiamo la risorsa della preghiera, che non è una delega, ma una relazione che trasfigura la persona e la rende capace di compiere le opere di Dio. Bisogna cercare una relazione sana anche nell’informazione: per questo – rivela monsignor Delpini – ho deciso di non seguire più i social, ma leggo le riviste missionarie dove si sente la voce di coloro che vivono nei luoghi di cui si parla».
«Noi siamo qui a dire che, effettivamente, la parola pace pare impronunciabile, ma che non siamo disperati perché vogliamo utilizzare tutte le risorse che abbiamo. La pace è una nostra responsabilità e un nostro programma di vita. Siano noi quelli che fanno il bene e quelli che tengono in piedi il mondo e siamo in tanti. Questo è un seme di speranza».
E appunto sull’esercizio della responsabilità si incentra il secondo momento del confronto.
«È vero», scandisce concorde con l’Arcivescovo, Santerini. «Abbiamo delle riserve da sfruttare. Educare alla pace significa essere pacificatori e offrire modelli diversi, specie alle nuove generazioni. Il problema è quello di un’educazione che libera la mente e il cuore. Non dobbiamo avere paura di educare alla libertà. Se si può fare una terza guerra mondiale a pezzi, come dice il Papa, possiamo fare anche una pace a pezzi, magari imparando a liberarci noi per primi qui, intercedendo per la pace che, come diceva il cardinale Martini, significa mettersi in mezzo e non stare al riparo. Ricordiamo ciò che sosteneva Jonathan Saks (Gran Rabbino della Gran Bretagna e del Commonwealth, capo spirituale delle Sinagoga Unita di Londra, la più grande del Regno Unito, scomparso nel 2020), che “la rivalità fraterna non è un destino, ma solo un tragico errore”».

L’Europa patetica

Poi, torna l’affondo dell’Arcivescovo. «Trovo un po’ patetica l’Europa, un continente in declino, vecchio, senza bambini, dove l’individualismo è ritenuto una forma di umanesimo legittimo e, anzi, che merita di essere custodito dalle leggi. Se questo è il modo con cui si concepisce l’umanità, siamo destinati a scomparire».
«Mi sono fatto l’idea che solo un convergere di popoli, una Chiesa dalle genti, un continente in cui vi sia la pluralità delle forme, possono far sì che ci sia pace. L’educazione non è l’allevamento di prototipi promettenti, che magari andranno all’Università o in Parlamento, ma è creare una convivenza di persone che non ritengono che la prima cosa sia difendere i propri diritti, la solitudine e l’egoismo, ma la strada della bellezza planetaria di essere donne e uomini, di costruire capolavori d’arte, di mettere al mondo figli. L’Europa è patetica se pensa che proporre l’egoismo come umanesimo, invece, si salverà se costruirà una civiltà nuova con l’apporto di molte genti.

La società è migliore della politica e dei media

«Noi non siamo arrivati in Europa, come dice la retorica di oggi, abbiamo fatto l’Europa con uomini politici che hanno vissuto il peggio del cuore nero del Novecento, dal 1914 al ’45, riuscendo a trasformarlo in un percorso verso l’integrazione e il benessere, nella certezza esistenziale che una patria comune c’è. Non possiamo ritornare a quello che eravamo prima del ‘14 non di questo secolo, ma di quello scorso, con l’Europa che si trincera nei confini dei Paesi, delle Leve di massa, come quella reintrodotta nella civilissima Svezia dove non è ammessa nemmeno l’obiezione di coscienza. Sotto le armi si va o si può pagare e, allora, si sfugge alla Leva. Così la guerra, come sempre, la fanno solo i figli dei poveri, come sta accadendo in Ucraina e in Russia. Oggi siamo l’8% dell’umanità, ed eravamo il 25% all’inizio del Novecento: diminuiamo perché la vita è altrove, dove si è capaci di essere generativi. Se proseguiamo a trincerarci nelle nostre paure, finiremo. L’utopia non è il luogo che non c’è, ma che non c’è ancora. Siate esigenti, chiedete la pace a chi vi rappresenta. La società è migliore della politica e dei media».

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