«Il sogno per questa Assemblea? Lo stesso descritto da Madeleine Delbrel in quella bellissima preghiera citata anche da papa Francesco in chiusura della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi: che le Chiese in Italia ritrovino, insieme, il gusto di “danzare, seguire, essere gioiose, essere leggere, e soprattutto non essere rigide”». Per annunciare al mondo il Vangelo «non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato, non come una partita dove tutto è difficile, non come un teorema che ci rompa il capo, ma come una festa senza fine, come un ballo» a cui l’umanità tutta è invitata. A rivelarlo è Erica Tossani, vicedirettrice della Caritas ambrosiana e membro del Comitato nazionale del Cammino sinodale, alla vigilia dell’appuntamento in programma a San Paolo fuori le Mura.
La prima assemblea sinodale delle Chiese in Italia si aprirà all’indomani della chiusura del Sinodo della Chiesa universale. Lei è stata una dei “facilitatori” al Sinodo sulla sinodalità e ora, insieme al cardinale Zuppi, introdurrà i lavori a San Paolo Fuori le mura. Cosa ha significato per lei questa doppia e speciale partecipazione?
Senza dubbio entrambe sono state esperienze ricchissime. Prendere parte alla XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi ha significato respirare a pieni polmoni l’universalità del Vangelo e prendere consapevolezza che la Buona Notizia davvero si è diffusa da un confine all’altro della terra. Ci è stata data l’opportunità di immergerci nella straordinaria diversità di esperienze delle Chiese di tutto il mondo, di gustare la gioia e la fatica dell’incontro fra culture e tradizioni differenti, di permettere al mondo e alle sue istanze di squarciare l’angusta prospettiva da cui spesso guardiamo la storia, anche quella della salvezza.
Anche il Cammino sinodale delle Chiese in Italia, pur con le dovute proporzioni geografiche, ci ha regalato innanzitutto questo: la bellezza di incontrarci, di iniziare a conoscerci e riconoscerci nelle nostre specificità e differenze, uniti dalla comune passione per il Vangelo e per l’umanità, di ridirci con forza il nostro desiderio di camminare insieme, per trovare il modo di essere segno credibile e gioioso dell’Amore del Padre per gli uomini e le donne del nostro tempo.
Spesso mi ritrovo nel cuore queste parole: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete» (Lc 10,23). Perché è davvero una gioia grande poter partecipare a questo processo, poter in qualche modo accompagnare la nascita di un nuovo volto di Chiesa.
Siamo giunti alla “fase profetica” del Cammino sinodale, in cui centrale è il tema della “riforma missionaria” delle comunità cristiane, in sintonia con la “Chiesa in uscita” auspicata da papa Francesco. Quali passi concreti si sono fatti in questa direzione nelle due tappe sinodali precedenti, dedicate all’ascolto e al discernimento, e come proseguire ora?
Sicuramente una prima grande rivoluzione o, meglio, conversione è stata quella di cambiare il punto di partenza. Il cammino sinodale, sia quello universale che quello italiano, ha preso avvio dall’ascolto: ascolto della vita delle persone, ascolto delle esperienze delle chiese locali, ascolto dunque della realtà e delle istanze del mondo. Questo è un passo concreto e fondamentale per una Chiesa in uscita: per essere missionaria, cioè “per il mondo”, la Chiesa non può non partire dalle domande, dalle sofferenze, dalle gioie e dai desideri degli uomini e delle donne di questo mondo (cfr. GS 1).
Un secondo elemento degno di nota è che questo cammino, sia nella fase di ascolto che in quella di discernimento, ha visto la partecipazione – o almeno ha teso a coinvolgere il più possibile – tutto il popolo di Dio, non solo alcuni. E questo non per motivi di rappresentatività democratica, ma perché è la Chiesa il soggetto della missione, la Chiesa è missione: e la Chiesa siamo noi, il “santo popolo di Dio”, tutti i battezzati, pur nella diversità di funzioni, carismi, ministeri.
Come proseguire ora? Per tornare a essere lievito, luce, sale per la vita degli uomini e delle donne di oggi, non si può non partire dalla vita, ed è quello che è stato fatto sinora. Ma alla vita si deve anche tornare: ecco perché diventa fondamentale che tutto quanto acquisito fino a qui, sia in termini di metodo che di contenuto, venga recepito, accolto, declinato nelle chiese locali, ai diversi livelli, nella molteplicità di forme che la diversità dei contesti e delle esperienze richiedono. E che il processo non si chiuda, ma prosegua secondo la grammatica appena descritta. Per continuare a costruire insieme i passi futuri possibili.
Al Sinodo sulla sinodalità si è parlato molto del ruolo e della responsabilità delle donne all’interno della Chiesa. È una questione che incrocia anche i sentieri del Cammino sinodale italiano?
La questione delle donne è certamente uno dei temi caldi che hanno acceso gli animi in questi anni di cammino sinodale, sia universale che italiano. E che hanno a volte visto alzarsi i muri dei pregiudizi e delle ideologie, sia da una parte che dall’altra. Questo, a mio parere, non aiuta ad ascoltare, leggere e discernere in profondità una questione che è emersa, che esiste e che chiede la pacatezza e la libertà interiore di essere compresa e affrontata alla luce del Vangelo e della conversione a cui lo stesso ci chiama. Non amo parlare in termini di contrapposizioni o di polarizzazioni maschile-femminile; credo piuttosto sia arrivato il tempo per le Chiese che sono in Italia e per ciascuno e ciascuna di noi, di prendere sul serio la necessità di “convertirci all’altro”, riconoscendolo e valorizzandolo nella sua alterità e nella sua specificità, nei suoi carismi e nelle sue competenze, in un’ottica di reciprocità e di scambio di doni. E di mettere mano ad alcuni processi, prassi o norme (o semplicemente di iniziare ad applicarle, laddove già presenti) che permettano tale riconoscimento reciproco. E che, dunque, rendano possibile un reale cammino insieme.
Parlare di “profezia”, nell’ottica dell’”armonia delle differenze”, significa anche dare spazio ai giovani. Quanto è stata ascoltata nel Cammino sinodale la loro voce, e quali passi in avanti sono eventualmente auspicabili?
Spesso all’interno del contesto ecclesiale si parla di giovani in quanto destinatari di un’azione pastorale o come categoria che dobbiamo tentare di “riagganciare”. Ma i giovani non sono solo destinatari dell’azione della Chiesa, sono Chiesa! Il mio auspicio è che anche nei loro confronti – così come per le donne – si proceda sempre più nella direzione del riconoscimento. Riconoscere innanzitutto che i giovani ci sono, forse non più nei luoghi dove immaginiamo o vorremmo trovarli noi, ma ci sono. E che sono presenti non in quanto portatori di un bisogno a cui la Chiesa deve rispondere, ma come latori di una parola di cui la Chiesa stessa ha bisogno per convertirsi ed essere profezia per questo tempo.