Mercoledì 6 novembre si è concluso l’iter parlamentare per una legge che garantisce anche alle persone senza dimora di avere un medico di base. Fino ad oggi per accedere al Servizio sanitario nazionale era infatti obbligatorio indicare un indirizzo di residenza. Un requisito che ha escluso molte persone da alcuni livelli essenziali di assistenza, dalla scelta di un medico di base e di un pediatra. Prima dell’approvazione della legge, per offrire comunque parte di questa assistenza ai senza dimora si aggirava il problema facendoli iscrivere a indirizzi fittizi. Per attuare la nuova legge è stato istituito anche un fondo di un milione di euro nel 2025 e uno nel 2026, per il finanziamento di un programma sperimentale nelle città metropolitane, per assicurare il diritto all’assistenza sanitaria.
Chi la considera un primo passo per la normalizzazione di una zona grigia è Alessandro Pezzoni, responsabile area grave emarginazione della Caritas ambrosiana. «È un buon segnale che sia stato approvato all’unanimità. Il nostro auspicio è che, tuttavia, non diventi un escamotage per non riconoscere il diritto della residenza anagrafica. Noi rivendichiamo il diritto alla residenza anagrafica già prevista dalla legge, perché da lì discendono una serie di altri diritti, non soltanto quello all’assistenza sanitaria».
Pezzoni descrive come ancora molti Comuni, specialmente quelli più piccoli, concedano raramente o non riconoscano affatto la residenza anagrafica ai senza dimora, nonostante ci sia una legge dello Stato chiara. «Le ragioni di questa ritrosia – spiega Pezzoni – più che per questioni ideologiche, che riguardano esclusivamente vicende legate alle persone immigrate, è spesso legata a motivi economici. Accettare la residenza significa infatti avere più persone in carico, potenzialmente, ai servizi sociali. Un costo che le amministrazioni spesso cercano di evitare».