«Io canto la bellezza della Chiesa universale, di questa presenza che, mentre offre il suo servizio, è guardata con sospetto, di questo amore che continua a curarsi dei più fragili e poveri, mentre la circonda l’indifferenza, l’ottusità dei ricchi e dei potenti. Io continuo a cantare di questa folla di uomini e donne che provano simpatia per l’umanità e che sono ricambiati con antipatia e disprezzo; canto di quella pazienza e mitezza della comunità che continua a servire tutti, anche coloro che si sentono sempre in diritto di criticare e di pretendere; di quella misericordia che prova compassione dell’umanità ferita e avverte di essere circondata da una specie di compatimento».
Nella solennità di San Carlo Borromeo, “campione” ed esempio della Chiesa, l’Arcivescovo, che presiede il Pontificale in Duomo, alza il suo canto nel nome del copratono dell’Arcidiocesi, nato nel 1538 e morto nel 1584, ma con il pensiero rivolto all’oggi di una Chiesa che, seppur «peccatrice», attraversa i secoli con l’unico scopo di «servire nel nome del Signore» (leggi qui l’omelia)
La celebrazione
Servire senza cercare «gli applausi e il successo» come fece san Carlo «infaticabile» nella sua predicazione e nel non abbandonare mai il suo popolo anche nei momenti più difficili come durante la peste del 1576, tanto che l’epidemia venne definita «la peste di san Carlo». Tanto, dopo quasi mezzo millennio, è ancora venerato e ricordato come il vero riformatore della Chiesa ambrosiana. San Carlo – e basta il nome di battesimo – alle cui spoglie, conservate nello Scurolo sottostante l’altare maggiore della Cattedrale, l’Arcivescovo prima che inizi la Messa rende omaggio, incensando l’urna e cantando la Sallenda, unitamente ai 9 vescovi, tra ausiliari e nativi della Diocesi, tra cui il delegato della Santa Sede alle Nazioni Unite, monsignor Gabriele Caccia. Concelebranti come anche i membri del Cem e i Canonici del Capitolo della Cattedrale e i Decani, che per l’intera giornata si erano riuniti per la loro assemblea. Molti i segni che parlano visivamente del Santo con la presenza, particolarmente significativa, di coloro che rappresentano le Istituzioni fondate o rifondate dal Borromeo: il rettore del Seminario, don Enrico Castagna, accompagnato dai diaconi e dai seminaristi, il prevosto degli Oblati di San Carlo, padre Giulio Binaghi, il moderator Curiae, monsignor Carlo Azzimonti e l’arciprete del Duomo, monsignor Gianantonio Borgonovo. Non mancano gli appartenenti a Confraternite e Ordini cavallereschi legati alla memoria del primo Borromeo, i seminaristi di Lugano, il Coro degli Alpini della Grigna, i fedeli di Frassineto Po, in provincia di Alessandria – che ancora oggi in alcune occasioni celebrano la liturgia in rito ambrosiano, essendo appartenuti fino all’inizio dell’Ottocento alla Diocesi di Milano -, a cui monsignor Delpini, a conclusione, dona una copia del nuovo Messale.
«Canto la bellezza della Chiesa»
Circondati dai “Quadroni” dedicati alla vita del Santo, a tutti si rivolge, nell’omelia, il vescovo Mario che indossa l’anello, il pallio e porta il Pastorale di san Carlo con la croce pettorale donata alla Diocesi da Maria Teresa d’Austria.
«Io canto della bellezza originale dello spettacolo della Chiesa universale, della moltitudine, che nessuno può contare, di coloro che portano il sigillo del Dio vivente; io canto della bellezza di contemplare, riuniti in un solo luogo, uomini e donne da ogni angolo del mondo, da ogni lingua, popolo e nazione, come è stato per l’Assemblea sinodale appena conclusa. Canto della moltitudine immensa delle persone che edificano la comunità, dei preti dedicati, dei santi della porta accanto, di quelli “che ci sono sempre” e sono anche capaci di lasciare il posto».
Una disponibilità – questa – che l’Arcivescovo definisce «stupefacente nel riconoscere i propri peccati, nel cercare in ogni tempo percorsi di rinnovamento dentro un’umanità che più che convertirsi cerca sempre di giustificarsi, più che rinnovarsi, difende con arroganza le sue pretese». Una Chiesa che «non è ineccepibile nei suoi uomini e nelle sue scelte» e che, tuttavia, cammina verso la Gerusalemme del cielo.
Il cantico di san Carlo
E forse, come immagina l’Arcivescovo, questo stesso cantico potrebbe essere quello del suo predecessore santo.
«San Carlo si è espresso in molti modi, con le sue prediche anche interminabili, con i suoi provvedimenti, quelli lungimiranti e quelli puntigliosi, con le sue lacrime e la sua dedizione tenace, volontaristica fino all’esaurimento. Un uomo austero, eppure viene da chiedersi quale sia il principio generatore di un’opera così straordinaria come quella che Carlo ha compiuto in tante parti della Chiesa, nell’attuazione del Concilio di Riforma di Trento. San Carlo certamente doveva avere questo amore per la Chiesa. A condurre e a sostenere la sua opera infaticabile credo che ci sia stato un amore appassionato che è come un cantico di amore per Gesù e per la condivisione del desiderio di Gesù di rendere bella, santa, immacolata la sua Chiesa».
Da qui la conclusione: «Io canto di questa dedizione di Carlo per la bellezza della Chiesa, io canto perché voi tutti vi uniate al cantico che riconosce la bellezza della sposa e invoca il compimento delle nozze nella Chiesa».